Sarà dura riorganizzare il comparto ovino sardo, prendere le “misure” per orientarne il rilancio, ora che buona parte del latte sin qui destinato alla produzione di Pecorino Romano dovrà essere utilizzato altrimenti.
Un latte che ora rischia il deprezzamento (ipotesi rigettata da organizzazioni agricole e movimenti pastorali), muovendo da una retribuzione 2008-2009 di 76-90 centesimi di Euro, se non si andrà a un tavolo di concertazione tra produttori e industria.
Un latte però che adesso corre il rischio di tingersi di “giallo”, dopo che il confronto tra i dati di Regione e Anagrafe Zootecnica – è notizia di ieri – ha fatto registrare un divario di 685mila capi e 4mila aziende. Si tratterebbe di pecore e allevatori che almeno in parte ufficialmente non “esiterebbero”, situazione che rilancia l’annosa questione (fiscale ma anche sanitaria) del latte in nero, spina nel fianco del comparto lattiero-caseario dell’isola.
In questo contesto stridono, alle orecchie di chi ricerchi qualità, le parole di Antonello Usai, commissario dell’agenzia agricola regionale Agris, che in una recente intervista ha commentato positivamente che nonostante il calo dei capi registrato negli ultimi anni (da 18 a 12mila) la produzione di latte ha tenuto «grazie alla selezione genetica e all’alimentazione migliore».
Alla luce di queste premesse appare difficile che l’intenzione di diversificare e ampliare la produzione dei pecorini sardi – manifestata di recente dall’assessore all’agricoltura della Regione Sardegna Andrea Prato («la Regione ha disponibili 5milioni di euro per promuovere l’immagine dei pecorini con azioni di marketing») – possa esprimersi in risultati di eccellenza. Se è vero com’è vero che la qualità del vino si fa in vigna e che quella del formaggio si fa al pascolo, è lecito affermare che con latte di pecore “spinte” e alimentate (anche) a mangimi, l’eccellenza rimarrà poco più che una chimera.
16 ottobre 2009