Pastori al centro dell’attenzione, al Salone del Gusto, anche quest’anno, e forse più che nelle precedenti edizioni. Un po’ per una sorta di vicinanza di Slow Food alle più autentiche comunità del cibo (pensiamo ai vari “pastori del Duemila”, come quelli del Presìdi), e un po’ per un increscioso fuori programma, nel corso del convegno sulla “Resistenza casearia” . Un “incidente di percorso” che per un paio d’ore ha proiettato la manifestazione nella crudezza del mondo reale, tanto sofferto quanto ruvido e ricco di contraddizioni, d’incomprensioni e di rabbia.
Contraddizioni che hanno visto un manipolo di pastori sardi aggredire verbalmente (sino a impedirgli un vero contraddittorio) chi nel gruppo dirigente di Slow Food e chi nel mondo della ricerca ha sempre lavorato in favore di malghesi e pastori, appunto, nell’affermare il loro diritto a mantenere vive le proprie culture e nel sostenere la superiorità dei loro prodotti, dal punto di vista sia gustativo che nutrizionale.
Stiamo parlando di Piero Sardo e Roberto Rubino, il primo presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus, il secondo presidente di Anfosc (Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo) e direttore editoriale di Caseus, il bimestrale legato a quell’associazione e all’Onaf (Organizzazione Nazionale Assaggiatori di Formaggio). Due personaggi che – chi li conosce lo sa – molto hanno fatto per quel mondo, e che di certo rappresentano voci fuori dal coro, se si pensa ad una ricerca e ad un mondo spesso allineati più sugli interessi industriali che sull’autenticità di prodotti e produttori.
Ma questo i pastori sul piede di guerra non lo potevano sapere (la rabbia acceca e le vessazioni subite lasciano pensare a volte che il mondo ti sia contro), e – pare – non lo hanno voluto neanche capire, perpetrando per tutto l’incontro la loro determinazione a rifiutare anche solo di ascoltare la voce di un’”intellighenzia” da cui si sentono traditi. Come a dire che gli errori dei “luminari intensivisti” (chi ha spinto la pastorizia sarda verso le superproduzioni ed il latte globalizzato di oggi, ndr) si ritorcono ancor oggi, ancora una volta, sul mondo di pastori, accecati a tal punto da non volersi fidare più di nessuno, e di non voler ascoltare più nessuno.
La “colpa” di essere un ricercatore
«Quando l’incontro dedicato alla resistenza casearia era stato inserito nel programma del Salone del Gusto 2010», spiega Giulia De Stefanis dell’Ufficio Stampa Slow Food, «non si poteva sapere che a pochi giorni dall’apertura dell’evento sarebbe esplosa, di nuovo, la rivolta dei produttori del settore». È così che i recenti scontri di Cagliari rilanciano l’argomento, e al convegno sulla “Resistenza casearia” sono molti gli allevatori presenti che vogliono dire la loro.
Roberto Rubino, che si presenta nelle vesti ufficiali di ricercatore del Cra (Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura), esordisce parlando della necessità di ridurre la produzione sarda (ridurla facendo un passo indietro rispetto alla genetica spinta e al latte globalizzato, per riconquistare la dignità di poco latte di pregio legato al territorio, ndr), ma non riesce ad esprimere sino in fondo il suo concetto che l’allevatore sardo Salvatore Russo lo interrompe: «Per anni abbiamo seguito le indicazioni che gli esperti dello Stato ci davano: abbiamo selezionato le pecore, investito in terreni e stalle, ricevuto contributi, ingrandito le aziende. E proprio oggi, mentre ci sveniamo pagando i mutui per restituire i contributi, ci venite a dire che dobbiamo ridurre la produzione?»
L’aria di confusione che tira nella sala è confermata da un altro produttore, fiduciario di Slow Food Abruzzo: «Da decenni in Italia non facciamo altro che riprodurre, ma in ritardo sui tempi, le politiche agricole di Francia e Germania. C’è disorganizzazione, totale anarchia». La sua è un’autoaccusa: «Cominciamo a fare proposte concrete per le future revisioni della Pac, non facciamo sempre scegliere gli altri».
A prendere le difese degli allevatori in crisi è Giuseppe Licitra, professore alla Facoltà di Agraria dell’Università di Catania ed artefice del Corfilac (Consorzio Ragusano Filiera Lattiero-Casearia): chiede allo Stato di assumersi la responsabilità delle scelte verso cui spinse i produttori, in nome di globalizzazione e progresso ad ogni costo, poi rivelatesi fallimentari: «Come faremo a spingere i nostri allevatori a ingrandirsi e competere sui mercati mondiali?», ammonisce Licitra; «non siamo in grado di reggere la concorrenza statunitense. Ora, come ha salvato le banche, lo Stato deve salvare anche loro».
Per un commercio equo e solidale
Ma è proprio specchiandosi nella precarietà del momento che una proposta di Slow Food, avanzata nell’estate dalla responsabile dei Presidi italiani, Raffaella Ponzio, trova ora spazio: quella di creare un gruppo d’acquisto nazionale sui prodotti pastorali, grazie al quale il prezzo dei prodotti paghi il valore del lavoro compiuto e i non pochi sacrifici per mantenere vivo uno degli ultimi lavori autenticamente ecosostenibili. Prezzi da concordare con i produttori. Prezzi equi e solidali, in sostanza.
“Il consumatore è chiamato all’appello”, sostiene Slow Food con questa iniziativa. Ma è solo con uno sforzo collettivo (che veda il settore unito e concorde sulla strada da tracciare) che si scorgerà una via d’uscita.
Aiutiamo i pastori, certo. Sempre che essi si lascino aiutare.
28 ottobre 2010