Pubblichiamo oggi un nuovo e interessante contributo dell'associazione Rare (Razze Autoctone a Rischio di Estinzione) sul rilevante valore delle testimonianze iconografiche d'epoca nell'ambito allevatoriale e della biodiversità. Vecchie fotografie, cartoline, filmati e disegni racchiudono spesso informazioni e messaggi utili per capire l'evoluzione dei costumi e della società. Quando poi tra i soggetti ritratti ci sono razze e allevatori locali, si riesce non solo a comprendere meglio il passato della nostra zootecnia ma anche a dimostrare, molto spesso, la necessità di un cambiamento rispetto agli attuali modelli e sistemi produttivi…
Contestualmente alla pubblicazione del pezzo (l'autore, Luigi Andrea Brambilla, è uno dei massimi esperti di razze caprine alpine) Rare invita tutti i possessori di questi documenti storici a inviarne copia tramite la pagina Facebook dell'associazione. Le immagini verranno pubblicate sia sul sito web che sulla pagina Facebook di Rare.
La nostra iniziativa: foto storiche. Formalismo, funzionalismo: quando la salvaguardia deve fare i conti con il sensazionalismo
L’amico Valerio Sartore, profondo conoscitore della storia locale dell’Ossola e attento giornalista della rivista Eco-risveglio, mi ha da poco mandato questa bellissima fotografia scattata nel 1937 all’alpe Nembro, in una zona prossima all’attuale Parco Naturale Alpe Veglia. La foto ritrae alcuni suoi famigliari, fra cui la nonna paterna Serafina, in mezzo al proprio gregge di capre. Se possiamo apprezzare ancora questo importante documento non dobbiamo ringraziare solo – si fa per dire – Valerio che lo ha custodito, ma anche l’autore dello scatto, il nonno Giuseppe, detto Pin.
Un’importante testimonianza storiografica, e fortunatamente non l’unica, che se guardata con occhi non nostalgici, può contribuire alla salvaguardia di quello che ancora rimane della biodiversità caprina nell’Ossola. Questi preziosi ritratti, infatti, ci danno modo di interpretare criticamente e in chiave moderna le molteplici diversità che oggi tanto e faticosamente vogliamo tutelare e valorizzare. Sicuramente e in modo più semplice, quasi naturale, una di queste è quella di tipo culturale. Una diversità che da tempo è oggetto di interesse da parte degli antropologi, ma che in agricoltura fatichiamo ancora a valorizzare nei giusti termini e senza retorica.
Una cultura di un periodo risalente a poco più di settant’anni fa, ma che sembra così lontana e in cui la vita pastorale di queste vallate era una condizione di normalità o meglio di necessità. A questa si aggiunge quella diversità che oggi chiamiamo genericamente agro-biodiversità: del paesaggio agrario per esempio, della pratica del fare formaggio o di alimentarsi con latte fresco. Infatti le capre ritratte stanno per essere munte in presenza della nipotina Edda, tuttora vivente, e che sicuramente ne avrà apprezzato il sapore ancora, e fortunatamente, ircino. La salvaguardia dell’agro-biodiversità è così salva, almeno nella sua testimonianza storiografica attraverso questi documenti, e soprattutto è salva qualsiasi siano le azioni che si intendono intraprendere a favore delle razze in via di estinzione.
Ma quella biodiversità più specificatamente animale? Quella di cui siamo chiamati ad esprimerci? Quale contributo pratico si può avere dallo studio di queste testimonianze? Questa foto, come altre, se osservata dalla giusta angolazione e con distanza critica dal passato, è zeppa di biodiversità, di risorse genetiche caprine e, soprattutto, di tanti spunti che oggi ci dovrebbero far riflettere sul formalismo estetico di standard e funzionale puro con cui spesso ci si deve confrontare nei dibatti fra tecnici. Il primo di questo, quasi sempre oggetto di interesse da parte dei possessori amatoriali di capre, è la ricerca della perfezione nel mantello e l’adesione, quasi maniacale, agli standard di razza, che spesso invece sono incompleti e poco aderenti alla realtà di salvaguardia oltre che allevatoriale. Il secondo è invece la ricerca di un miglioramento funzionale solo produttivo (es. produzione di latte), trascurando o sottovalutando erroneamente il contesto allevatoriale che presuppone altri importanti aspetti funzionali quali per esempio la rusticità come espressione del formalismo-funzionale vero e proprio.
In questa foto riconosciamo, riferendoci al formalismo estetico, il mantello classico della capra Vallesana dal collo nero che in passato presentava, e questa foto ne dà testimonianza certa, la sua suddivisione cromatica nella regione retro-scapolare. Oggi questo è un grave difetto per una scelta estetica di soggetti necessariamente divisi a metà e con netta separazione del mantello nero da quello bianco. Ma quello che più colpisce è la bella capra in primo piano, sempre del tipo vallesano, caratterizzata da una evidente "cintatura" bianca e che oggi da noi è ormai del tutto scomparsa. In Svizzera, a titolo di cronaca, nell’ambito della salvaguardia delle razze caprine sono numerosi i progetti che tendono a mantenere le differenti varianti di mantello invece che ad escluderle (http://www.prospecierara.ch/it/animali). Già sul finire degli anni '40 il formalismo estetico, applicato soprattutto nei bovini, equini e suini dalla scuola tedesca di ezoognosia (studio della conformazione degli animali da reddito), veniva criticato dagli zootecnici italiani invece più inclini al funzionalismo (studio delle performance produttive); un dibattito molto lontano, e non solo nei luoghi, rispetto al contesto ritratto nella nostra bella foto.
Oggi però questo è tornato di grande attualità, anche, per non dire soprattutto, nelle allora dimenticate capre. La questione, infatti, e per concludere, è che oggi le argomentazioni sul miglioramento delle razze locali non possono… (leggi tutto sul sito web di Rare)
di Luigi Andrea Brambilla
3 marzo 2014