I fautori delle razze spinte speculano sulla memoria corta degli italiani

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Sant’Antonio Abate è il santo protettore degli allevatori, ma a quanto pare non riesce a proteggerli da tutte le angherie che vengono loro rivolte, giorno dopo giorno. Soprattutto da parte di chi si dice al loro fianco ma che poi, a ben vedere usa lo spazio occupato nel mondo della politica per una rappresentanza che nessuno ha mai dato loro, nei termini di molte istanze rivendicate, in tv e sulle pagine dei giornali.

Lo diciamo pensando alla messa in scena dell’ennesima farsa con cui lunedì scorso, 16 gennaio, ricorrenza di Sant’Antonio Abate, due delle “firme” del mondo agricolo italiano hanno portato in piazza San Pietro animali di razze a rischio di estinzione (peraltro mal assortiti, se si pensa che molti di essi, come i suini di Cinta Senese e i bovini di Piemontese non corrono alcun rischio, ndr) per sostenere argomentazioni che mai sono state le loro in passato ma che da qualche tempo suscitano gli interessi di altri attori del panorama italiano delle produzioni agroalimentari. Tematiche da sempre trattate da associazioni come Save Foundation e Rare (l’associazione Razze a Rischio di Estinzione), cavalcate negli ultimi anni da Slow Food e ora fatti propri senza alcun titolo di merito (tutt’altro, ndr) da Coldiretti e Aia (Associazione Italiana Agricoltori).

Sul fatto che i vertici della chiocciolina abbiano il vizietto di “ispirarsi” a battaglie altrui (quella dell’associazione Rare, senza mai riferirsi all’esistenza di Rare) facendole proprie e spingendosi poi ad abusare di terminologie coniate da altri (la “Resistenza Casearia, coniata dalla nostra casa editrice nel lontano 2003 e diventata nel 2011 patimonio di Slow Food senza che nessuno pensasse neanche di avvisarci: leggi qui) c’è ormai poco da aggiungere a quanto già detto. Sulle virate revisionistiche e sulla benché minima assunzione di responsabilità degli altri due soggetti citati, si spera che i più attenti tra gli operatori di settore, abbiano fatto di già le loro considerazioni.

Ma ai molti distratti che popolano il settore agricolo e il mondo dei consumi è bene aprire gli occhi sui poco lineari comportamenti di chi di fatto ha, da sessant’anni, una delega in bianco della politica italiana per fare – sempre e comunque – il bello e il cattivo tempo in campo agricolo. Con qualsiasi governo, in qualsiasi passaggio della storia della Repubblica Italiana, a dettar legge sono stati e sono loro. A decidere sono loro. Ma stranamente a sbagliare (fateci caso) è sempre qualcun altro. Se altre volte le motivazioni portate nelle strade potevano apparire plausibili (latte straniero per fare formaggi italiani, prodotti clonati, etc.), questa uscita sulle razze a rischio di estinzione è apparsa a dir poco grottesca.

Come i più avveduti sanno, il fenomeno dell’erosione genetica, che ha portato alcune razze a scomparire e altre a rischiare di fare la medesima fine, è direttamente collegato alll’introduzione di razze specializzate (ne è emblema la Frisona per le vacche, ma ogni specie ha la sua: le capre la Saanen; le pecore l’Assaf e la Lacon), alle iperproduzioni e a quel cosiddetto “miglioramento genetico” che di fatto – e troppo spesso – è stato ed è un “peggioramento” verso rese produttive sempre più elevate e verso una qualità sempre più a picco.

Detto questo, ci chiediamo con quale faccia chi ha indotto il settore a perdere un così vasto patrimonio genetico (qui un nostro articolo dell’aprile scorso) celebra oggi le vittime di una tale e dissennata politica gestionale?

Certo, operare in Italia offre congrui vantaggi a questi signori: primo fra tutti quello di avere a che fare con un giornalismo assai poco cosciente (lontano da mondo agricolo quanto la stessa politica lo è), condizione che offre e offrirà ancora a lungo carta bianca per dire che è vero tutto e il contrario di tutto.

Troppo spesso si legge della necessità di tutelare l’ambiente, di praticare nuove forme di economia sostenibile, ma mai una volta è accaduto che un giornalista che si occupi di certe questioni si sia preso la briga di collegare un aspetto della faccenda ad un altro, di cercare e presentare causa ed effetti. Sarebbe giunta l’ora per molti di accendere qualche neurone spento, di scrollarsi di dosso l’indifferenza, di guardare le cose nel loro insieme. E di raccontarle. Di cominciare a prendere le distanze da certi personaggi: tanto dallo chef di grido, che quasi sempre cucina una materia prima che neanche conosce, al critico gastronomico abituato a guardare più all’estetica del piatto che non a ciò che il cibo in esso contenuto introdurrà nel nostro organismo.

23 gennaio 2017