Fiore Sardo: illegale la royalty richiesta dal consorzio ai pastori?

La messa in forma del Fiore Sardo dei pastori, Presìdio Slow FoodC’è in Sardegna un formaggio a latte crudo – da sempre prodotto nel cuore della Barbagia come da millenni – che oltre ad escludere la pastorizzazione prevede la lavorazione “a caldo”. Quel formaggio è il Fiore Sardo: un prodotto che – come per il Bitto storico, oramai denominato Storico Ribelle – è l’orgoglio dei pastori, che hanno respinto ogni idea di compromissione, ogni tentazione a semplificare le cose, prendendo scorciatoie o strade diverse da quella maestra. Il formaggio dei pastori con la schiena diritta, che mai si sono piegati alle infinite avversità che li hanno investiti e che oggi patiscono l’ennesimo tentativo di coercizione dei poteri forti.

Prima della cronaca qualche considerazione ci aiuterà a valutare i fatti recenti, già che il Fiore Sardo si fa oggi come da sempre, rispettando alla lettera i dettami di un’insuperabile tradizione arcaica: trasformando il latte ancora caldo, ovile per ovile, azienda per azienda. Come faccia l’industria a produrlo, dovendo raccogliere latti a destra e a manca, refrigerandoli e caseificando ore ed ore dopo, noi lo dobbiamo ancora capire. Ma tant’è che ne fa, lo commercializza e lo promuove con una capacità di persuasione e con disponibilità economiche che i pastori di certo non avranno mai.

Una situazione quindi che va ben oltre il paradosso, in cui i pastori, che lavorano il proprio latte, sono riusciti da oltre dieci anni ad avvalersi della denominazione “Fiore Sardo dei pastori – Presidio Slow Food”, senza però riuscire ad ottenere la gestione del consorzio di tutela, che dall’autunno del 2016 è governato dagli industriali.

Ed ecco qui che arriva l’elemento del contendere ultimo, generato nei giorni scorsi da una controversia che ha in sé molti aspetti del paradosso e del nonsense. E forse sinanco dell’abuso: gli industriali – ovvero ufficialmente il consorzio – chiedono ai pastori che non aderiscono all’ente di tutela di versare un fee biennale (da qualcuno definito royalty) di 3mila euro più iva, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda. Un costo fisso secco, che viene richiesto a tutti ma che ha diversi pesi a seconda delle dimensioni delle aziende: per chi produce una forma al giorno (poco più di una tonnellata all’anno) saranno tre euro in più al chilo, per chi ne produce tre al giorno non più di un euro. È evidente che così ad andare fuori mercato saranno ancora una volta i più piccoli.

La risposta all’incredibile richiesta, giunta ad ogni produttore interessato con una lettera raccomandata recapitata agli interessati tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, non si è fatta attendere: una trentina di allevatori si sono costituiti in un gruppo spontaneo, determinati a verificare la legalità di una tale pretesa. E a rigettarla con gli strumenti del diritto.

Nella questione, affidata ad un pool di legali coordinati dall’avvocato Ivo Loi di Cagliari, si raffigurerebbe una violazione del regolamento che concerne la ripartizione dei costi derivanti dalle attività dei Consorzi di Tutela delle Dop (D.M. 410 del 12.09.2000) il quale prevede che ciascun produttore di una Dop “dovrà contribuire con una quota commisurata alla quantità di prodotto, controllata dall’organismo”.

Quel che emerge lampante è un vero e proprio atto coercitivo nei confronti dei pastori che trasformano il solo proprio latte, invisi alle industrie che producono Fiore Sardo (ripetiamo: come lo producono?) in quanto componente autentica e universalmente riconosciuta dai più qualificati operatori mondiali (stentiamo a credere che una formaggeria oculata venda Fiore Sardo industriale). Ma non solo: l’ente garante di vigilanza, legalità ed equità – guidato da Antonio Maria Sedda della Sepi Formaggi – sta compiendo un atto discriminante nei confronti di una parte dei produttori: un aspetto grave sul quale avvocati e magistratura si troveranno ad operare e giudicare.

Dal canto loro, i produttori che sono fuori dal consorzio rivendicano il diritto di non far parte di un ente che non li rappresenta più da quando è governato dagli industriali. E sottolineano un’ulteriore discriminazione, in quanto la nuova “gabella” non sarà dovuta dai produttori che al consorzio aderiscono.

Al momento la vertenza ha registrato la prima mossa dei produttori “indipendenti”, che proprio per tramite dell’avvocato Loi hanno inviato al MiPAAF e all’Icqrf (Ispettorato Centrale Qualità e Repressione Frodi) richiesta ufficiale per intimare al consorzio la revoca dell’indebita richiesta e di ogni ulteriore azione che violi le norme che regolano le attività di gestione delle Dop.

22 gennaio 2018