Crisi del latte: nessuna soluzione (vera) se la qualità (reale) non verrà premiata

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Su questa tragica situazione dei pastori sardi, che poi non è tanto diversa da quella dei colleghi siciliani e piemontesi , laddove essi siano asserviti all’industria, molto è stato detto e scritto in questi giorni. Talvolta con colpevole leggerezza e imprecisione o per semplice ignoranza, tanto dall’uomo della strada (“uno spreco gettare il latte”, “uno schiaffo alla miseria”, “vanificato il sacrificio di poveri animali” e varie altre sciocchezze) quanto dal giornalista – che dovrebbe ben sapere di cosa parla, o scrive – e dal politico.

Limitandoci a citare i cortocircuiti più rilevanti apparsi in taluni articoli, da chi ha confuso il latte ovino (pagato alla fonte 0,60€/litro) con il vaccino (venduto a 2€/litro), come nel caso – assai grave – del presidente Eurispes Gian Maria Fara, o dell’editorialista del quotidiano La Repubblica Concita De Gregorio, o – fatto ben più grave – quello di un ministro che a due mesi dall’annuncio della ratifica di Oilos (Organizzazione Interprofessionale Latte Ovino Sardo, nata per dare ai pastori una contrattualità rimasta puro esercizio teorico) rilascia dichiarazioni come se Oilos non esistesse, come se non l’avesse detto lui che Oilos stava per nascere.

Per non parlare poi del giornale sardo online che offre la parola ai Fratelli Pinna per consentire ora, proprio ora e a loro – che il latte lo pagano un prezzo da fame – di precisare che la materia prima rumena la loro azienda non la importa. Senza guardarsi bene dall’aggiungere, ad esempio, che formaggi e latticini “italian sounding” da loro prodotti in Romania (Dolce Vita, Ricotta, Toscanello, Pecorino) saturano da anni i mercati esteri, essendo del tutto simili a quelli sardi (e italiani), riducendo di fatto la possibilità ad altri prodotti sardi (e italiani) di trovare spazi per l’esportazione.

Ma il problema non sono solo i fratelli Pinna e la loro azienda – che quest’anno ha festeggiato i cento anni dalla fondazione con la sua prima campagna pubblicitaria – ma tutte le industrie e le cooperative sarde che – lo sostengono i pastori da tempo – fanno cartello per acquistare il latte al prezzo più basso possibile, affamando un’infinità di famiglie e inducendo il settore primario della loro stessa isola verso la miseria, nella disperazione.

Se dalle industrie questo atteggiamento – per quanto largamente biasimevole – lo si può comprendere, dalle cooperative certo no, non lo si può accettare. Cooperative di allevatori sardi, si badi bene, che in una sola direzione guardano – la direzione del mercato – senza peraltro saperci stare sul mercato (mancano prodotti innovativi, manca la valorizzazione delle tipicità più tipiche, ndr). Cooperative di pastori, quindi, governate da una classe dirigente (chiamiamola così, per evitare altri epiteti) largamente inadeguata a ricoprire quella posizione. Una classe dirigente che, tra la prospettiva di studiare i mercati, innovando poi l’offerta, e il vicolo cieco di una politica commerciale operata al ribasso, sceglie il vicolo cieco, pur sapendo che non porterà in alcun posto.

Si è sentito dire a destra e a manca, e a tutti i livelli – tanto da Matteo Salvini quanto da Salvatore Palitta del consozio del Pecorino Romano – che si dovrebbero ritirare tonnellate di prodotto, per far sì che il prezzo del latte possa risalire. Una prospettiva sbagliata, perché di respiro corto, che ancora una volta impegnerebbe soldi pubblici, quindi di tutti, per risanare un problema innescato da pochi. Una prospettiva oltre la quale, in breve tempo, ci si troverebbe, punto e a capo, nel buio più profondo.

Come se tutto ciò non bastasse, ecco poi che dal citato intervento di Palitta s’insinua tra gli operatori un’altra idea – quella di commisurare il prezzo del latte ai suoi costi – foriera di non pochi rischi, primo tra tutti quello di cronicizzare una situazione che avrebbe bisogno di essere sradicata, ribaltata e rimossa. La direzione verso cui il mercato deve attivarsi adesso – per risolvere una crisi gridata da ieri, ma sussurrata da anni – è ben diversa, e passa per un concetto che nessuno sta vedendo, se si fa eccezione per qualche (tardiva) boutade di Carlin Petrini: la soluzione è quella di legare il prezzo del latte ovino alla sua qualità più vera, alla qualità degli acidi grassi.

Una qualità che si legge e si misura con un’analisi chimico-fisica; un’analisi di laboratorio che andrebbe introdotta come strumento per svincolare il prezzo dalle logiche industriali. Si otterrebbe così un secondo binario, oltre quello creato dagli industriali, che premierebbe l’allevanento estensivo (e in Sardegna di pascoli autunno-vernini ce ne sono, e le transumanze verticali sarebbero ancora possibili, volendo), l’alimentazione con fieni e concentrati locali, la qualità reale di un latte che, se prodotto a regola d’arte, tornerebbe ad avere quei contenuti salutistici, oltre che nutrizionali, che i mangimi dell’industria hanno ridotto ai minimi termini, oramai.

Sarebbe un latte, il latte così prodotto, che andrebbe offerto non tanto alle industrie affamatrici quanto alle cooperative dei pastori stessi, ammesso che queste riescano a operare una radicale rivoluzione del loro management. Un latte che, messo in mano alle persone giuste, con dei progetti giusti (raccontare per davvero i diversi terroir della Sardegna, che sono nell’erba e nei terreni, non nel mangime globalizzato), porterebbe alla creazione di produzioni rinnovate e orientate verso nuovi mercati e nuovi target di consumatori.

È una strada, quella della qualità reale, che la Sardegna dei tecnici, delle università e dei centri di ricerca, potrebbe avviare già domani, per il grado di preparazione che le si riconosce in Italia e nel mondo. Quella della politica e dell’imprenditoria no: è in quella direzione che l’isola deve operare, da oggi, guardando al futuro, se vuole garantire ai propri figli la prospettiva di rimanere, felici, soddisfatti ed orgogliosi, nella propria isola, a fare il mestiere più antico e bello che là si conosca: quello del pastore.

18 febbraio 2019