Consumo consapevole: cresce chi sa capire le due facce della Valtellina casearia

A differenza dello Storico Ribelle, che qualcuno ancora chiama erroneamente “Bitto Storico”, il Bitto Dop può essere riconosciuto per la classica etichetta rossa. Attenzione perché qualche scaltro produttore, sapendolo, evita di apporla come sarebbe obbligato a fare – foto dal sito del Ctcb©

Quello valtellinese è l’areale della produzione casearia – e vitivinicola – che più meriterebbe uno studio condotto in profondità, per decodificarne sino in fondo i duplici aspetti produttivi: da una parte le produzioni eroiche, che si sudano ogni zolla coi terrazzamenti dei vigneti, e ogni filo d’erba con un tipo di pascolamento – quello turnato – che fa rigoroso divieto dei mangimi (produzioni che hanno ormai trovato un piccolo, ben proporzionato e crescente mercato consapevole), dall’altra le produzioni massificate, che riempiono gli scaffali della Gdo di merce che – se non fosse che l’origine è indicata in etichetta – si faticherebbe spesso a capire dove venga prodotta. E questo perché mangimi e fermenti nel formaggio, al pari dei lieviti selezionati nel vino, tendono a globalizzare, e nascondere, purtroppo, i caratteri propri della territorialità.

Sono oltre 50 (non tutti caricati ogni anno) gli alpeggi che possono produrre Bitto Dop, integrando l’alimentazione alpina a base d’erba con il mangime. Oltre la metà di essi sono dislocati al di fuori della zona storica di produzione (Valgerola e Valle di San Marco per Albaredo) – immagine dal sito del Ctcb©

A noi piacerebbe pensare che le due differenti filosofie produttive – quella del rigore, del terroir e della biodiversità (legata alla composizione della terra, all’esposizione al sole, alla qualità dell’erba, ai diversi animali e casari) e quella che fa dei livelli di vendita uno dei pricipali motivi d’orgoglio (tanto latte, uguale a sé stesso nel tempo, ma diverso dall’”altro” latte, quello dell’erba e del fieno locali), appaiano al consumatore per quello che sono. Purtroppo così non è, se non in alcuni casi, in cui l’acquirente ha doti rare quali la competenza, un’adeguata attenzione e la giusta propensione ad essere informato.

Per decodificare le due facce della stessa medaglia servirebbe quindi uno studio analitico (analisi organolettiche comparate, analisi chimico-fisiche dei prodotti; analisi dei suoli e dei reflui, etc.) che probabilmente nessuno mai compirà: da una parte perché mancano i finanziamenti per farlo, dall’altra perché non c’è interesse e si preferisce evitare il confronto.

Totalmente differente dal Bitto Dop è lo Storico Ribelle, che vieta l’uso di mangimi in alpeggio, di fermenti selezionati in caldaia e obbliga all’uso del latte di capra, sostenendo la razza autoctona Orobica, a rischio d’estinzione – foto Valli del Bitto società benefit

Per capire valori e differenze bisogna essere (e mantenersi) ben informati
In mancanza di prove certe e provate, per capire in ogni più remota piega (nell’aspetto organolettico, nutrizionale, salutistico, ma anche nella sostenibilità ambientale) quanto siano autentici gli uni prodotti e gli altri ovvero quanto siano diversi gli uni dagli altri, pur apparendo simili – ad esempio il Casera (Dop) e il Furmacc del Féen (recente Presidio Slow Food); il Bitto (Dop) e lo Storico Ribelle (dal 2003 Presidio Slow Food, ambasciatore della vera biodiversità nel mondo) –  ognuno si rifarà alla personale conoscenza che avrà avuto modo di formare, informandosi.

Di studi comparativi tra le lavorazioni a base di mangimi insilati ed erbe ce ne sono, sul web (un suggerimento: operate ricerche in lingua inglese, poi le tradurrete, ndr), come anche non mancano quelli che raccontano l’incidenza negativa della refrigerazione sulla lavorazione del formaggio. Per non parlare poi di quelli che mettono in evidenza il “peso” che i fermenti selezionati hanno sul gusto e la tipicizzazione del prodotto.

Cercate, leggete, documentatevi (anche su questo nostro sito), e vedrete – è inevitabile – che più ci si documenta sulla deriva che la “modernizzazione” induce nell’autenticità delle produzioni davvero tipiche, più le scelte del consumatore si spostano (se si ha a cuore il buon cibo autentico) verso il passato. Badate bene: questo nostro approccio alla questione non ha nulla di nostalgico o retrogrado ma intende “solo” opporre una sensata resistenza al cambiamento, quando esso ha poco da offrire, e tanto ha da togliere, depredare, sottrarre.

I produttori stessi, quando tentati dalla prospettiva di conseguire risultati numerici, avrebbero o avrebbero dovuto porsi tante domande. E avrebbero dovuto opporre a molte innovazioni qualche resistenza, se necessario. Domande che spesso non si sono posti, purtroppo, di fronte al “prezzo” che ogni (apparente) miglioria comporta. “Cosa ci guadagno a far così? tempo? semplificazione? altro?”, e “Cosa ci perdo? gusto? autenticità? benessere animale? impatto ambientale?”). Domande che spesso i produttori non si fanno e non si sono fatti, o che magari hanno rivolto alle persone sbagliate (tecnici aggregati al pensiero globalizzante).

In questo senso, la dice lunga ciò che lo stesso vicepresidente del Ctcb (Consorzio di Tutela Casera e Bitto Dop), Andrea Pedranzini, affermò appena quattro mesi or sono, nell’intervista (qui di seguito, in video) rilasciata all’emittente televisiva svizzera Rsi – che decise di accendere un faro sulle diversità tra Storico Ribelle (sino al 2016 Bitto Storico) e Bitto Dop – ammettendo (testuali parole) che nel sistema della Dop “purtroppo ci sono dei furbi che esagerano con l’integrazione di mangime” e che “ci sono delle persone (casari) che non sono capaci di utilizzare i fermenti (selezionati, non autoctoni)”. Su questo fronte, a buon intenditor poche parole, e buona visione del video che qui riroduciamo.

Di sicuro le differenze dichiarate fanno capire che le produzioni maggiormente qualitative, che fanno dell’autenticità, del legame col territorio (che giammai si fa coi mangimi ma con l’erba, fresca o essiccata che sia), della tradizione, e del rispetto ambientale la propria bandiera, possono anche fare a meno di pubblicizzare il loro lavoro in maniera palese, essendo la qualità reale dei loro prodotti e l’estremo rigore con cui vengono selezionati e stagionati i migliori ambasciatori che potrebbero esistere.

Da una parte c’è quindi chi fonda il proprio presente – e il futuro dei propri figli – sulle scelte di sempre (tipicità, benessere animale, tutela ambientale reali, rigore produttivo), affidandosi all’efficacissimo passaparola di chi – bottegaio o consumatore che sia, sapendo ciò che c’è da sapere – divulga le proprie conoscenze; dall’altra parte si evidenzia una realtà che per riconquistare fette di mercato perdute si affida ad una narrazione pubblicitaria che oltre a dispensare suggestioni ha bisogno di accedere ai lauti finanziamenti pubblici di cui i consorzi dispongono, facendo parte di un sistema che accede ad essi con estrema facilità.

Che peso avrà negli anni la modernizzazione figlia dei mangimi?
Interessante sarà, per dotarsi di una chiave interpretativa ulteriore, andare a studiare l’incidenza che l’antropizzazione ha comportato sulla cosiddetta “zona critica” delle Alpi (quanto compreso tra l’apice vegetativo della pianta e dell’erba e il fondo della falda acquifera: ne parliamo proprio oggi in un altro articolo che documenta una recentissima ricerca dell’Università di Pisa), laddove è supponibile che la presenza di un sistema che utilizzi mangimi abbia un maggior impatto su di essa (trattammo la questione in qualche modo tre settimane fa criticando il Comune di Gerola Alta per aver affidato il pascolo comunale di Trona Soliva senza porre vincoli ecologici nella conduzione del medesimo). Le scelte di oggi ricadranno sulle future generazioni. Non dimentichiamocelo mai.

3 dicembre 2019