Nella sovraesposizione mediatica che la transumanza ha dovuto subire in questi giorni, sotto la pressione dell’italico commentario di natura nazional-popolare, con assai poche voci, anche tra i media, che sono riuscite a non steccare il proprio ruolo espressivo, a guardar bene si palesa una larga parte dei mali che investono il mondo agro-zootecnico italiano.
Dal pressappochismo al populismo, dal voler parlare sempre e comunque per primi – l’ultra-decennale vizio di chi brucia i tempi agli altri per mantenere una posizione sul mercato, anche a costo di dire poco o nulla, o di sbagliare – al vizietto dei “copia e incolla” di chi – a digiuno su qualche argomento – preferisce esprimere una qualsiasi cosa piuttosto che tacere, come sarebbe bene che fosse. Tutti parlano, in sostanza, ma pochi sembrano in grado di ragionare in profondità. Meno che mai di guardare oltre le parole.
In molti quindi dicono la loro sulla transumanza, lo avete sentito, ma pochi sanno cosa essa sia, quante forme ne esistano, per quali ragioni essa sia nata, sin dove essa affondi le radici nella Storia dell’Umanità. Meno che mai, tra di loro, qualcuno avrà partecipato anche ad una sola di esse, per quanto nelle forme attuali che sono alla portata dei comuni mortali, anche solo in qualità di accompagnatori.
Forse per una sorta di pudore, gli unici che hanno il buonsenso di tacere, sembrano essere – per fortuna – i piccoli speculatori che occasionalmente o periodicamente associano il concetto della transumanza alle attività del semplice scarpinare. Gente che si ritrova, di tanto in tanto a ripercorrere tratturi, bracci e tratturelli ormai dismessi e che si limita a rievocare qualcosa che, a loro detta, doveva essere perduta da tempo. E che invece – è l’Unesco ufficialmente a sancirlo – è ancora tra noi, seppur diversa da come fu allora, e da come essi stessi la rievocano, con il loro camminare. Da essi ci si attende il gesto grande del ripensamento, ovvero del completamento del loro fare, che a null’altro può portare se non all’inclusione che tutti dovremmo auspicare.
Un’azione quindi che non si limiti a rievocare ma che si prenda il diritto e il potere, attraverso l’inclusione, di rilanciare, abbandonando le sterili celebrazioni del passato e lanciandosi finalmente nel sostegno della pastorizia viva, vera e moderna(*) – ché non esiste tradizione che nel tempo non si sia adattata all’evoluzione dell’uomo – dando così un supporto morale, sociale ed economico a chi vive 365 giorni all’anno in armonia con i propri animali e con l’ecosistema.
“La transumanza”, come narra il sito web dell’Unesco, nell’annunciare il conferimento che ad essa è stato accordato – di titolo di Patrimonio Immateriale dell’Umanità – è sì “la spinta stagionale del bestiame lungo le rotte migratorie nel Mediterraneo e nelle Alpi”, ma è anche e soprattutto “una forma di pastorizia. Ogni anno in primavera e in autunno”, è sempre il sito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura a ricordarcelo, “migliaia di animali sono guidati da gruppi di pastori insieme ai loro cani e cavalli lungo percorsi costanti tra due regioni geografiche e climatiche, dall’alba al tramonto (o anche meglio dal tramonto all’alba, ndr). In molti casi”, vivaddio, “anche le famiglie dei pastori viaggiano con il bestiame”.
Chi voglia riprendere fermamente i fili di una conoscenza largamente perduta, parta dall’ABC di questa antichissima pratica e del Pastoralismo, quindi, e non si attardi in letture scialbe, inodori e insapori – o peggio ancora fuorvianti – ma getti da lì le basi della propria conoscenza. Poi passi all’azione, nella Primavera prossima, aggregandosi ad una comunità di pastori in una delle transumanze che vanno incontro alla ripartenza vegetativa.
Verticali od orizzontali che siano, lunghe una notte o più giorni, sarà da lì, dalla pratica e dalla vita vissuta che si potrà partire per riscoprire un mondo e i suoi valori ancestrali, l’essenza dei quali – non sarà difficile capirlo – è ancora viva oggigiorno. A partire dalla “fame d’erba” che tutto mosse, sin dalla prima migrazione in cui fu l’animale a dire all’uomo ciò che era bene fare, non l’uomo ad esso.
Il vero pastore, la vera pastorizia, sono quelli che assecondano le proprie bestie nella ricerca dell’erba più ricca, più grassa, alta e nutriente che sia disponibile, a costo di ore e giorni di cammino. Allo stesso modo in cui il vero casaro, il vero formaggio, sono quelli che vivono di microrganismi indigeni e con essi – e solo con essi, e non con le famigerate “bustine” – perpetrano il loro naturale divenire: formaggi mai simili a sé stessi, quindi, espressioni della natura, della stagionalità, delle erbe e del metabolismo delle proprie lattifere.
Bando ai mangimi quindi, bando ai fermenti selezionati: è quello il mondo da fuggire, è lì che se sentirete parlare di transumanza – anche se apparentemente da pastori – sarete voi consumatori a poter dire a quell’allevatore e a quell’artigiano del formaggio come fare a ritrovare l’unica via possibile per recuperare la propria vera Transumanza, e il proprio essere Pastore e Casaro: dalla propria Erba, abbandonando i mangimi; dai propri Fermenti Autoctoni, rifiutando di usare quelle bustine che standardizzano sapori, saperi e biodiversità.
16 dicembre 2019
(*) il concetto di modernità accostato all’idea di un fare antico e tradizionale non deve spaventare, laddove ci si accerti che per moderno non sia stato sdoganato qualche elemento in grado di arrecare danno, intralcio o disturbo all’essenza del fare, alla sostanza dell’atto e della prativa tradizionale. Non sono moderni i mangimi insilati, gli unifeed, le razze iperproduttive, i fermenti selezionati. Essi sono semplicemente dannosi, da evitare, pena la perdita dell’essenza stessa di cui quella tradizione è fatta