Quante storie “conta” il Bitto, se l’articolo è un pubbli-redazionale

Saper narrare a proprio favore una qualsiasi vicenda è arte che non può non tener conto degli interessi del consumatore. In questo senso l’editore dovrebbe rendere esplicito il senso promozionale di un’operazione come quella degli “Speciali Itinerari del gusto” del CorSera, che abbina una storia gastronomica (qui il Bitto) al nome di un investitore pubblicitario (Kia). Investitore che in questo caso non è scevro da interessi in entrambi i settori (Autotorino e La Fiorida)

Una stessa leggenda giammai potrà avere due nomi o due identità, tantomeno due storie. Una stessa leggenda deve avere – e ha – il nome certo e inequivocabile di chi quella storia ha scritto sin dalle origini, di chi ha saputo mantenerla viva, conducendola integra sino ai nostri giorni.

La storia dev’essere protetta, nel rispetto di chi l’ha scritta con impegno e sacrificio, nell’interesse delle future generazioni. E va tramandata per ciò che è stata: fedele a sé stessa, preservandola dal revisionismo di chi abbia interessi a mistificarla, distorcerla, piegarla ai propri interessi.

Nello Speciale “Itinerari del gusto” del Corriere della Sera ogni racconto è associato al nome di un’azienda automobilistica, in base ad un investimento pubblicitario operato dalla concessionaria, a volte con il supporto produttore

Sono queste le prime riflessioni che ci assalgono leggendo un pubbli-redazionale (articolo a pagamento, sponsorizzato da Kia/Gruppo Autotorino) dedicato al Bitto Dop, apparso sul Corriere della Sera – Speciale Mercato dell’Auto – a pochi giorni dalla consueta chiusura pre-natalizia della nostra Redazione.

Chi conosca l’allegato promozionale del quotidiano milanese e chi abbia occhio per capire come funzionino gli speciali della case editrici dovrebbe averlo capito: la proposta della concessionaria – in questo caso la RCS Pubblicità – abbina sempre una tematica – qui una destinazione turistica e una produzione gastronomica – ad un cliente pubblicitario o, in questo caso, due: l’auto e il suo rivenditore, una firma del settore automobilistico.

Con le modifiche al disciplinare di produzione del Bitto (formaggio d’alpeggio) le pratiche tradizionali sono state tralasciate a vantaggio dei quantitativi (mangimi, in alpeggio) e della standardizzazione (fermenti selezionati). Ad essere però fedeli alle aspettative del consumatore sono le sempre più performanti auto della Kia, commercializzate da Autotorino

In questo modo il tour dell’Umbria verrà abbinato al guanciale e sostenuto da Hyundai e quelli di Marche e Puglia alla pasta artigianale, grazie a Lexus, e al pane, con inserzionista Mazda.

A rendere possibile un’architettura editoriale in grado di sostenere le capacità di vendita della RCS Pubblicità, c’è un nutrito gruppo di giornalisti preparati, competenti e dalla buona penna – più spesso professionisti che pubblicisti – che si sono specializzati in questo genere di attività. Allo stesso modo in cui agiscono le troupe televisive, in cui il corrispondente è affiancato da un operatore video, il team è completato da un fotografo free lance o componente di un’agenzia fotografica, in grado di garantire un servizio accurato, all’altezza della fama dell’editore, delle esigenze del cliente, e del budget investito che – tanto per farsi un’idea – non ha mai meno di 4 zeri.

Tornando all’articolo che ha colpito la nostra attenzione – intitolato “Quante storie racconta il Bitto”, da esso emergono chiaramente la figura di Plinio Vanini, nella duplice veste di imprenditore automobilistico – presidente di Autotorino, con 37 sedi in tre regioni – e agricolo – con la bella azienda agrituristica La Fiorida di Mantello, in provincia di Sondrio – e una serie di personaggi che in vario modo hanno intrecciato e intrecciano la loro attività con il mondo del Bitto Dop.

Un racconto parziale, che non aiuta i consumatori a capire 
Snocciolando appunto storie su storie, ritratti su ritratti, il pezzo narra nel complesso di una realtà assai variegata, in cui tutto appare, ovviamente – com’è tipico per certo genere di pubblicistica – nel suo massimo splendore. Fatto salvo che il suo autore, per un motivo o per l’altro (o perché non al corrente delle vicende degli ultimi vent’anni di questa realtà, o per garantire al cliente un taglio consono alla natura dell’operazione), trascura palesemente le note salienti – e dolenti – di una Dop a cui varie testate giornalistiche (lo stesso Corriere della Sera nel 2016, la tv svizzera RSI pochi mesi or sono, ma ancor prima diverse altre testate tra cui, nel 2006, Montagna.tv, etc.) hanno dedicato cronache assai dolenti per le comunità che ne sono state investite e per la stessa immagine della valle.

Vicende che hanno messo a nudo in maniera netta e inequivocabile due realtà contrapposte: una – quella dello Storico Ribelle, già Bitto Storico, obbligata a cambiare nome nel 2016, per non essersi sottomessa alle modifiche industriali del disciplinare di produzione, pena le iperboliche multe che sarebbero giunte da Bruxelles – tanto fedele al lascito dei padri, alla tradizione, alla biodiversità e all’ecosistema da meritare due Presìdi Slow Food (Storico Ribelle, creato nel 2003, e Furmacc del Féen, nel settembre scorso) e – senza spendere un cent – la grande attenzione dei più prestigiosi media del mondo (ultima la CNN, con un servizio che andrà in onda nei prossimi mesi), l’altra una Dop che dapprima ha esteso oltre i territori d’origine (le sole Valgerola e Valle di Albaredo, oltre a limitate enclave brembane e lecchesi) l’areale di produzione (l’autorevole Ruralpini.it parlò di falso storico, documentando tale affermazione in maniera inequivocabile), introducendo poi mangimi (si figuri, in alpeggio!) e fermenti industriali (come percepire le biodiversità dei vari alpeggi?) ed escludendo il latte di capra della ricetta originaria, dalla caseificazione.

Un’informazione che “conta storie” a chi non sa
Fatte queste debite e dovute precisazioni, è evidente come i molti che non sanno tutto ciò – siano essi operatori o consumatori – vengano attratti e inebriati da storie e immagini di personaggi arbitrariamente astratti dallo scenario in cui operano, alcuni – assai pochi – magari esemplarmente – senza utilizzare mangimi – altri abusando di essi o utilizzando non sempre al meglio i fermenti, come di recente confidato ai giornalisti della RSI dal vicepresidente stesso del CTCB (Consorzio Tutela Casera e Bitto Dop), Andrea Pedranzini.

In un mondo in cui ormai news e fakenews si accavallano regolarmente le une alle altre tanto quanto realtà e virtuale viaggiano affiancate e sovrapposte, e le coscienze vengono distolte dalle cronache negate di fatti eclatanti (fateci caso: i giornali parlano ormai più di gossip che di economia), gli editori stessi – e tra essi purtroppo i più autorevoli – hanno perduto il dovuto rigore e il rispetto per il lettore, tralasciando ormai troppo spesso – quale consuetudine diffusa – di indicare nelle pagine pubbli-redazionali e negli inserti speciali la natura promozionale e pubblicitaria dell’iniziativa.

Quale morale da questo racconto?
Mai come adesso – è questa la morale che emerge dalla vicenda – il consumatore deve essere molto attento ai fatti e ai misfatti che lo riguardano, in primo luogo quando entrano in gioco tematiche che oggigiorno sembrano essere importanti per i più: dal presidio dei territori alla biodiversità, alla questione ambientale, all’autenticità dei prodotti che per essere definiti tradizionali non possono e non debbono essere stravolti da interessi industriali o merceologici (mangimi, fermenti, etc. per produrre di più o con maggior regolarità).

Chi ha operato per incrementare e standardizzare la produzione eviti – se ci tiene alla propria credibilità, e una volta per tutte – di abusare di termini che non gli sono propri (non c’è tradizione né rispetto per l’ambiente se ci sono mangimi, assieme o al posto dell’erba) e si attenga ad una narrazione la cui veridicità sia difendibile.

13 gennaio 2020