Marcelli: “Con un asino ogni dieci ettari in Abruzzo c’è chi si fa ricco”

Nunzio Marcelli con le sue pecore – foto La Porta dei Parchi©

In tempo di pandemia, il Governo emana decreti su decreti, vara la fase 2 dell’emergenza, tiene a freno – per quanto può – le amministrazioni locali propense alle riaperture facili, dopo che proprio le Giunte Regionali hanno varato le misure di sostegno alle persone, alle imprese e al territorio.

Tra queste, la Regione Abruzzo, il primo aprile, erogò il pacchetto d’interventi denominato “Cura Abruzzo”: un’iniziativa che normò un’infinità di aspetti della vita sociale ed economica locale, senza tralasciare le questioni legate alla sicurezza sanitaria. Tra le altre misure, però, pur introducendo – finalmente – un freno all’annoso fenomeno della cosiddetta “mafia dei pascoli”, sembrerebbe aver perso l’occasione di considerare a fondo le necessità del mondo allevatoriale e pastorale.

A detta di Nunzio Marcelli di Anversa degli Abruzzi, presidente dell’Arpo (Associazione Regionale Produttori Ovicaprini) d’Abruzzo «la nuova norma regionale sulla cosiddetta “mafia dei pascoli”, eviterà sì l’arrivo di nuovi speculatori – ed è un passo avanti – ma poco potrà fare per chi è già da tempo insediato sul territorio, che si porta dietro – per colpa di una legge nazionale sbagliata – la possibilità concessa per “diritto divino” di accedere a contributi milionari».

Ma non solo, prosegue Marcelli, perché «soprattutto manca l’aspetto fondamentale: non si vincola l’accesso ai terreni a chi ne avrebbe diritto: a chi davvero produce carne, latte e formaggio».

La norma regionale, che ha come prima firmataria la consigliera comunale Antonietta La Porta (Lega), ha sì inteso porre un freno al fenomeno della “mafia dei pascoli”, vale a dire ad una situazione ormai diffusa da anni, che vede società fittizie – con sedi sparse ovunque in Italia – fare incetta di pascoli (affittandoli a costi proibitivi per i pastori locali e/o  intestandoli a dei prestanome e a società di comodo) non per allevarci animali (a malapena ne portano qualcuno, affittato a destra e a manca), per produrre carne, latte e formaggi, bensì per intascare decine di milioni di euro di aiuti comunitari, attraverso l’AgEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura). 

In tutto questo, spiega l’imprenditore di Anversa degli Abruzzi, «bisogna tener conto che le imprese che hanno all’attivo produzioni di pregio, possono avere in ogni punto d’Italia, se affittano pascoli, contributi multipli rispetto a tutte le altre, per lo stesso pezzo di terra e per fare la stessa cosa, vale a dire per pascolar bestie».

Purtroppo l’emendamento La Porta non cancella i limiti della normativa nazionale
Nell’emendamento presentato dalla consigliera La Porta sono stati fissati nuovi criteri per l’assegnazione dell’uso civico di pascolo: è stato stabilito che le “terre civiche sono conferite, anche con durata pluriennale, prioritariamente ai soggetti iscritti nel registro della popolazione residente da almeno 10 anni, che abbiano un’azienda con presenza zootecnica, ricoveri per stabulazione invernale e codice di stalla riferito allo stesso territorio comunale o ai comuni limitrofi.

«È questo un passo avanti» anche secondo Marcelli, «che però», assicura, «non riesce a mettere al riparo dalle speculazioni che ancora sono possibili a causa della normativa nazionale».

«L’associazione che rappresento», sottolinea il presidente dell’Arpo, «aveva individuato come vera soluzione quella di dare assoluta priorità alle aziende che producono per davvero, che fanno latte, carne, formaggi e così via. Il requisito deve essere la produzione, prima ancora della residenzialità da 10 anni». Una differenza non da poco, non a caso suggerita da chi conosce bene il meccanismo della speculazione, combattendolo da anni.

«Allo stato attuale un ettaro ad uso pascolo costa 4 euro in media – spiega Marcelli, «con la legge nazionale che obbliga a garantire un parametro UBA – unità di bestiame adulto – di 0,1: esemplificando, nove pecore o un cavallo o una mucca o un asino per un costo di 40 euro per UBA, che possono garantire l’impegno su 10 ettari».

Ed è qui – è il caso di dirlo – che casca l’asino.

Dopo la mafia dei pascoli, a brucare erba, gli asini
«E si badi bene», prosegue il presidente dell’Arpo, «non è un caso che i nostri pascoli siano pieni di asini: sono animali che non hanno costi di produzione, non devono essere accuditi più di tanto, e possono essere lasciati morire di vecchiaia. Non è dagli asini che si guadagna. E allora accade, anche con le modifiche regionali attuali, che si potrà continuare a far pascolare un asino in dieci ettari, che saranno costati di affitto 120 euro. Ebbene quell’asino può rendere – in termini di titoli AgEA – dagli 8 ai 700 euro di fondi pubblici ogni l’anno. Senza produrre nulla, senza benefici per il territorio e per l’economia locale».

«Le società che sono venute in Abruzzo per fare incetta di pascoli», si accalora Marcelli, «oramai si sono insediate qui da tempo, alcune da oltre dieci anni, e da questo punto di vista sono a norma. Come se non bastasse, alcune di esse operano attraverso dei prestanome: è il caso classico del pensionato che di punto in bianco, senza mai essersi occupato di zootecnia ha aperto a suo nome un’azienda. Dietro di lui ci sono appunto queste società che gli hanno dato capitali e assistenza tecnica, solo per mettere mano ai fondi comunitari, disinteressati come sono, quasi sempre, ad impegnarsi in una produzione zootecnica vera e di qualità».

Il meccanismo perverso è nella norma nazionale: è lì che bisogna intervenire
Resta perciò immutato e pernicioso, nonostante le buone intenzioni della norma regionale, il vero meccanismo perverso che risiede nella norma nazionale, sul valore variabile dei titoli: ogni azienda  porta con sé – “in eredità” – un valore del potenziale contributo ad ettaro di pascolo, in base a quello che produce. O addirittura a ciò che ha prodotto in passato. Ad esempio, chi alleva tacchini in Pianura Padana, o coltiva tabacco sulle colline umbre – produzioni considerate purtroppo “di pregio” – ha diritto, a prescindere, a migliaia di euro di contributi per lo stesso ettaro di pascolo, in ogni parte d’Italia. Per un pastore vero, o per un normale agricoltore locale, invece, il titolo si riduce a poche decine di euro.

«Da qui e solo da qui è partita la corsa all’incetta di terreni incolti dell’Appenino» continua Marcelli, «senza un vero interesse per allevare vacche, pecore o cavalli». «La mafia dei pascoli», prosegue il pastore di Anversa degli Abruzzi, «sarà sconfitta per davvero solo se si cambierà la quantificazione predefinita dei titoli, il meccanismo del cosiddetto “disaccoppiamento” che – di fatto – è un’illogica rendita di posizione. È assurdo che chi produce tabacco, o che lo abbia fatto in passato, continui ad avere diritto a titoli che possono raggiungere i 3 mila euro per ettaro, e solo per diventare un pastore, per di più virtuale».

«L’impresa giunta da fuori regione, che abbia in tasca titoli d’oro», conclude Marcelli, «potrà continuare ad acquistare aziende decotte, ma quasi mai queste società poi creano sviluppo locale e lavoro, avendone scarso interesse: come detto, con un asino a pascolare in dieci ettari, loro sono in regola in regola per arricchirsi».

11 maggio 2020

Articolo redatto su fonte fornita dall’Ufficio Stampa dell’azienda “La Porta dei Parchi”; fonte: intervista rilasciata da Nunzio Marcelli al sito internet Abruzzo Web. Si ringraziano entrambi per la collaborazione