
Come il buon vino si fa in vigna, il buon formaggio si fa nei prati permanenti, o prati stabili, e questo perché il buon prato – che non abbia subìto arature ma solo interventi di mantenimento e utilizzo, come l’irrigazione, la falciatura e il pascolamento – ha in sé una straordinaria biodiversità e tutto ciò di cui una vacca rustica abbia bisogno per produrre un latte buono od ottimo, senza il quale non sarà possibile produrre un formaggio altrettanto buono od ottimo.
Si fa un gran parlare di biodiversità, da qualche tempo a questa parte, e questo è il fronte su cui portare i tanti soloni che si riempiono la bocca di belle parole, parlando di formaggi: se i ruminanti a cui vi riferite non si nutrono dell’erba di prati stabili, evitate di parlare di biodiversità, o quantomeno non lo fate se non volete apparire ridicoli. Allo stesso modo in cui chi alimenta degli erbivori con i mangimi – calpestando la natura stessa di quegli animali – non dovrebbe mai parlare di benessere animale.
Tornando ai prati stabili – ovvero al sistema alimentare che in assoluto è l’ideale per gli erbivori – di essi si è parlato sabato 18 settembre a Bra, in provincia di Cuneo, in una conferenza intitolata “Se scompaiono i prati naturali”: un’iniziativa che ha permesso di fotografare la condizione di salute in cui questi sistemi vegetali versano in Italia, con cenni alle situazioni di altri Paesi.
In tutta Europa i prati stabili occupano una superficie equivalente all’incirca alla Francia; a detta degli esperti, i più floridi si trovano in Irlanda, Spagna e Portogallo. Sono fondamentali per mantenere la biodiversità (non solo quella vegetale ma anche quella animale, favorendo essi la presenza di insetti, roditori e altri animali selvatici stanziali e di passo), per l’alimentazione degli animali che se ne nutrono e, di conseguenza, per il loro benessere, per la produzione dei formaggi sani e buoni, ricchi di complessità aromatiche, gustative e nutraceutiche.
Sistemi vegetali tanto preziosi, quindi, che in Italia stanno però pian piano scomparendo, a causa dell’abbandono delle campagne, del consumo di suolo e dell’intensificazione dell’attività agricola industriale.
I prati stabili, meglio definiti come prati permanenti semi-naturali, sono superfici inerbite create nel corso di migliaia di anni dall’uomo grazie al pascolamento degli animali. Per il loro mantenimento, l’attività antropica attraverso l’allevamento di erbivori è un servizio fondamentale se non anche indispensabile.
«In Italia», ha sottolineato il Prof. Giampiero Lombardi, docente di alpicoltura presso il DiSAFA (Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari) dell’Università di Torino, «la superficie occupata dai prati naturali è pari a 32mila chilometri quadrati, ma negli ultimi 40 anni abbiamo perso un quarto del totale. Le cause? Nelle zone di pianura principalmente l’urbanizzazione e l’industrializzazione dell’agricoltura, mentre in collina e montagna è stato il fenomeno opposto: l’abbandono, la fine dell’attività antropica, e così gli erbivori non pascolano più i prati, e la natura (le erbe infestanti, gli arbusti, il bosco, ndr) si riprende i propri spazi».
Se in Italia la situazione dei prati stabili non è quindi buona, c’è da dire che alcune regioni – a differenza di altre – hanno saputo mantenere o recuperare quanto perso nel corso degli anni. «Il Piemonte», ad esempio, prosegue Lombardi, «ospita il 30% dei prati del Nord Italia, anche grazie a un ritorno alla praticoltura registrato negli ultimi anni. Altrove la situazione è meno positiva: è ancora recuperabile, ma ci sono campanelli d’allarme importanti».
Ma qual è la differenza tra un formaggio da prati stabili e uno prodotto con latte di animali che si nutrono di insilati, cioè di derivati vegetali stoccati in silos? Per rispondere a questa domanda è intervenuto Giampaolo Gaiarin, tecnologo alimentare presso la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, in provincia di Trento.
«Il formaggio», ha esordito Gaiarin, «è la sintesi della biodiversità: una vacca alimentata con insilati di mais riesce a sostenere in media appena un parto e mezzo in carriera, contro i sette-otto – e talvolta anche dieci – di una bovina allevata nelle vallate alpine. Questo perché l’alimentazione ha un influsso notevole sullo stato di salute degli animali». «E poi ancora, da non trascurare», ha aggiunto Gaiarin, «c’è la maggiore complessità aromatica e gustativa, e l’aspetto legato alla salubrità: i formaggi alimentati al prato hanno un minore contenuto di grassi saturi, e sono più ricchi di Omega 3».
Interessante infine, l’intervento di Irene Piccini, ricercatrice presso il Dsv (Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi) dell’Università di Torino, che ha voluto rimarcare «la caratteristica principale di questi prati: essi richiamano moltissimi insetti, fondamentali per l’impollinazione»; «insetti che a loro volta attraggono altri animali, come ad esempio gli uccelli e molti altri predatori». In un periodo storico in cui tanto si parla, a tutti i livelli, di ecosostenibilità, il sistema dei prati permanenti è un patrimonio che non si può più trascurare come è accaduto sinora.
20 settembre 2021