16 febbraio 2009 – Roberto Rubino, ricercatore del Centro per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura di Roma, è stato rimosso dall’incarico di direttore della sede che l’ente ha a Monterotondo, nei pressi della capitale, a seguito delle polemiche scatenate dalla sua recente partecipazione ad Unomattina, il contenitore mattutino di Rai Uno.
A seguito della trasmissione, Rubino, che in tv aveva detto la sua e giusta opinione a proposito di mucche iperproduttive e zootecnia industriale, ha dovuto subire un attacco epistolare dell’Unalat (Unione Nazionale Associazione Produttori Latte Bovino, corporazione della zootecnia industriale) indirizzato al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, da cui l’ente per cui lavora si è ben guardato dal difenderlo. Un atteggiamento, questo del Cra nei confronti del suo dirigente che ha rappresentato “la goccia che fa traboccare il vaso”, sottolineando come gli interessi dell’ente vadano in una direzione diversa da quella in cui Rubino stava conducendo il suo lavoro di ricerca, orientato ad una zootecnia sostenibile, etica e lungimirante, tutt’altro che vocata all’iperproduttivismo “senza se e senza ma”.
A Rubino, che se ne torna al Cra di Bella (Potenza) va la solidarietà della nostra redazione, e ai nostri lettori l’invito ad informarsi altrove (la televisione è inevitabilmente strumentale agli interessi dei potenti, che “a volte ci inquinano”, ndr) per orientare le proprie scelte, anche in campo agroalimentare.
Di sicuro, difendere il latte crudo da zootecnia estensiva non può che dare fastidio alle lobby del latte, a meno che ti ascoltino in pochi, meglio ancora se addetti ai lavori. Di pari, attaccare gli allevamenti intensivi può anche andar bene, a patto però che lo si faccia in un convegno di esperti oppure dalle pagine di un giornale di settore. In altre parole, il “fastidio” che queste tematiche danno agli industriali del latte è tollerabile, ammesso che il grande pubblico non venga a sapere.
A cosa avrà mai pensato quindi Rubino, patron del bimestrale Caseus e dell’Anfosc (Associazione Italiana Formaggi Sotto al Cielo), quando ad Uno Mattina, ha rilanciato giorni fa la sacrosanta critica ai mega-allevamenti delle mucche da cinquanta litri al giorno? Probabilmente a nulla di particolare, perché quando si è lì il tempo per le strategie di comunicazione è già scaduto, e tuttalpiù si può badare a dire al meglio quel che si è deciso di dire.
Certo è che, a meno che non si lavori in tv o che non si abbia il potere di tirare su l’audience con la propria presenza, un invito in tv è cosa infrequente e di tutto rispetto nella vita di un uomo, per cui è il “prima” dell’evento che porta a ragionare sul “cosa dire” e sul “come dirlo”. Soprattutto quando si tratti di questioni delicate o in grado di configgere, per la propria natura, con gli interessi altrui.
Di sicuro, a sapere che una certa cosa è nera e continuare a sentirsela raccontare per bianca può spingere a voler fare chiarezza “una volta per tutte” e ad ergersi a paladino dei mal informati e di chi in questo settore (malghesi, pastori, allevatori estensivi) opera ancora come si deve.
Intervenendo sulla vicenda e riferendosi al sistema della zootecnia intensiva, il professor Michele Corti, docente di Sistemi Zootecnici presso l’Università degli Studi di Milano, ha detto che è «giusto tenere conto dell’esigenza di mantenere la competitività di un settore strategico dell’agroalimentare ma si devono tenere in conto gli impatti sociali, ambientali territoriali del “superproduttivismo”».
Certo, per Unalat, come anche per l’Assolatte (l’associazione degli industriali del latte aderenti a Confindustria) quel che conta è difendere un settore di per sé in grave crisi (le aziende italiane del settore sono passate dalle 182mila del 1988/89 alle 82mila del 1998/99 e alle 44mila del 2007/08). Quello che a nostro avviso non è facile accettare è che questo venga fatto impunemente senza che altri possano manifestare un punto di vista diverso da quello. «La mentalità dei “Signori del latte”», incalza Corti, «è ferma ad una società industriale corporativa, dove il latte è affare di chi lo produce e basta, e dove esiste solo la dimensione economica-produttiva, dove il fatto produttivo è un fatto aziendale». Ma «Folli (Ernesto Folli, presidente di Unalat, ndr) sa benissimo», insiste il docente milanese, «che l’esigenza di competitività va contemperata con altre esigenze, quella del rispetto dell’ambiente – e la direttiva nitrati è un vincolo molto concreto – e quella della bioetica».
In sostanza, quanto può essere esasperata la rincorsa ad una mucca sempre più produttiva? Quanto costerà all’ambiente, alla biodiversità animale e vegetale? Quanto il consumatore accetterebbe una soluzione del genere se solo fosse un poco più informato?
E siamo al dunque: per le lobby del latte il consumatore non deve sapere, perché se ciò accadesse potrebbe allontanarsi dal prodotto e far crollare la richiesta. Avanti allora tutta a pensare che “il bimbo non cresce sano se non beve (quel) latte”, e che “il latte buono e pulito è quello pastorizzato e bianco” e non certo il latte crudo, giallo per il betacarotene dell’erba.
Un’ultima riflessione: in Italia come in altri Paesi “progrediti” l’aspettativa di vita di una mucca iperproduttiva è di tre anni e mezzo (in genere Frisone, che non più di vent’anni fa vivevano almeno dodici anni, o Brune Italiane). In Israele e Olanda, dove il sistema zootecnico industriale è più “avanti” del nostro, le mucche da latte non sono più in grado di mettere al mondo una vitella che le possa rimpiazzare. Ma questo, signori cari, è bene che non si sappia in giro.