Parmigiano di montagna: l’Appennino vuole il suo marchio

Uno dei più noti e apprezzati Parmigiano Reggiano di montagna è quello della Cooperativa Santa Rita di Serramazzoni. Nella foto il suo direttore Graziano PoggioliC'è un nuovo fermento, sull'Appennino emiliano, per promuovere il Parmigiano Reggiano di montagna per i meriti che oggettivamente ha e oltre i demeriti e le lacune di un sistema che nel complesso – se si esclude una mini-ripresa dell'export – versa in acque poco felici. A differenza della pianura, la cultura produttiva è rimasta all'incirca quella di sempre, con alimentazione prevalentemente del territorio e limitate risorse alla mangimistica ammessa dal disciplinare. E poi le razze locali: la vacca Rossa Reggiana e la Bianca Modenese, che nell'ultimo decennio, hanno sottolineato quanto sia forte la volontà di tornare alle antiche tradizioni.

Non è un caso se un Parmigiano Reggiano di oltre dieci anni ha fatto buona compagnia al Bitto storico di diciannove anni all'Asta Bolaffi di inizio maggio (leggi qui): quando una produzione è virtuosa, la sfida del tempo può essere affrontata senza pensieri. Chi ha deciso di puntare alle quantità, abbandonando le metodiche di un tempo, neanche la può principiare. A guardar bene, oltre al Bitto e al Parmigiano "prodotto della montagna" esistono altre realtà che hanno due facce ben distinte, una industriale e l'altra che ha saputo mantenersi rurale (quasi) come un tempo. Dall'Asiago al Monte Veronese, solo per citarne un paio: in ciascuna di esse le componenti più autentiche sono riuscite ad aggrapparsi al "carro Slow Food" attraverso i Presidi per riuscire a distinguersi in un mercato che si fa sempre più difficile. Con i consumatori disorientati se non c'è un marchio a confortarli, incapaci come sono ad informarsi e sinanco a leggere le etichette.

Un Parmigiano Reggiano del 2002, battuto all'asta di Bolaffi a Milano poche settimane fa. Nessun prodotto analogo della pianura può superare integro 13 anni di invecchiamento - foto dal catalogo Bolaffi AsteSi registra un fermento, dicevamo – finalmente! – che appare nuovo e composito, rappresentato da un lato dai contributi previsti dal Psr 2014-20, che nella sola provincia modenese erogherà oltre 130 milioni di euro (leggi qui) e dall'altra da una volontà diffusa di cambiare le cose che muove dal basso, con il “Fare" (Formaggio Appennino di Reggio Emilia) e il "Rifare" (Relazioni Interaziendali tra Famiglie nell’Appennino di Reggio Emilia), progetti di lavoro nati proprio per valorizzare il formaggio della montagna, che coinvolgono la Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla e l'associazione dei Rurali Reggiani, attorno ad una strategia ben definita e tesa alla valorizzazione di quello che qui è il prodotto principe, vale a dire proprio il Parmigiano-Reggiano di montagna.

Infine, è appena dell'altroieri la notizia secondo cui (si legge sul sito di Redacon, leggi qui) sulla montagna reggiana si starebbe concretamente pensando ad un vero e proprio marchio per il Parmigiano Reggiano di montagna. La fonte è più che affidabile: entro il prossimo settembre se ne dovrebbe sapere qualcosa di più.

1° giugno 2015