Ancora una strage in un allevamento di pecore in Maremma. È accaduto giovedì scorso a Preselle, quindici chilometri a est di Grosseto, ed è toccata ad una delle aziende storiche di quel territorio, quella della famiglia Zizi, che perde così almeno altri sessanta capi tra quelli uccisi dai predatori, quelli che sono stati abbattuti per le gravi ferite riportate e infine i venti dispersi, che mai verranno neanche rimborsati. Oltre al danno, la beffa: la storia si ripete, ed ogni volta non si va oltre le parole di circostanza. Le soluzioni, che dovrebbero competere al governo centrale e a quello del territorio, vengono lasciate all'iniziativa personale. Dopo di che qualche imbecille getterà ancora fango sulle vittime – i pastori – come già accaduto in passato.
Nelle parole di Giovanni Zizi non c'è desiderio di vendetta ma rassegnazione e sconforto: «I ventiquattro capi agonizzanti sono deceduti nella notte portando il numero a quota quarantatré (tutte pecore gravide, ndr), con ancora una ventina dispersi, ma il tempo per le ricerche è veramente poco», racconta Zizi sulla sua pagina Facebook, che ora è tempestata da un'infinità di messaggi di solidarietà e di amicizia.
«Una sessantina di agnelle», prosegue Zizi «e un ariete iscritti all'albo genealogico in cui era stato fatto lavorare un riproduttore pagato 6mila euro: parte del futuro della mia impresa – che da quarant'anni alleva apportando migliorie genetiche con incroci ponderati per arrivare ad un gregge sempre più rasente alla perfezione – è stato cancellato in una notte. Le carcasse sono state portate all'inceneritore del Caseificio Sociale di Manciano per essere smaltite e oltre al danno diretto dovrò subire ulteriori costi».
A chi si chieda una valutazione del danno arriva pronta la risposta: «Non voglio fare stime sul danno totale, fra diretto e indotto, per non passare un'altra giornata in balia dell'angoscia, ma purtroppo devo fare i conti con la realtà: considerando le mancate produzioni di latte, lana, agnelli destinati al macello e rapportandolo per il periodo di vita media dei capi parliamo di decine di migliaia di euro. Denaro che sarebbe stato destinato a implementare le migliorie della mia attività e qualche rimanenza a permettere alla mia famiglia di condurre una vita dignitosa».
L'amarezza prevale sulla rabbia, e la lettura complessiva della cosa è assai lucida, al là che si tratti di lupi o di ibridi, perché in sostanza che siano gli uni o gli altri non cambia nulla: «Di risarcimenti non se ne vedono e quei pochi che saranno concessi non serviranno a coprire neanche il 20-30% dei danni causati. Ripeto: non ho rancore nei confronti dei predatori, loro sono solo gli esecutori e non i mandanti. Coloro che si stanno macchiando di tale colpe sventolano la bandiera italiana ed europea dalle loro sedi: governi, regioni, province, comuni, associazioni e movimenti permettono a tutto ciò di accadere, non solo nel mio settore ma in tutta l'economia nazionale».
Le cronache di queste ore aggiungono poco altro ai fatti accaduti. Sui giornali si legge con insistenza di chi si spertica nel dimostrare che non si tratterebbe di lupi ma di cani incrociati con essi, ma se anche così fosse, a chi dovrebbe interessare questa situazione, ormai ben radicata e circostanziata, oltre ai diretti interessati, che continuano sempre e solo a pagare? Chi dovrebbe intervenire se non le istituzioni per proteggere un comparto che nel grossetano rappresenta ancora una realtà assai rilevante?
La situazione nel complesso pare fare comodo ai gruppi industriali che in Maremma imperversano, primo tra tutti Granarolo, che – come accade in Sardegna per le capre (leggi qui il nostro articolo odierno) sembrano sempre più interessati ai quantitativi e sempre meno al tipo di conduzione del gregge: al pascolo o in stalla pare che per loro la differenza non ci sia. Tanto poi i giornali, se si parlerà di produzioni tipiche (tipiche in stalla?, ndr) non avranno nulla da obiettare. Nulla da chiedere o contestare.
12 ottobre 2015