L’idea di una qualche fusione tra due big del lattiero-caseario italiano – quello della qualità “storica”, il Parmigiano Reggiano, e quello del primato delle vendite, formaggio storicamente a più buon mercato, il Grana Padano – balena nella testa di qualcuno da qualche tempo. E muove la lingua al direttore del consorzio di Desenzano sul Garda, Stefano Berni, che dal 30 maggio scorso ha preso a parlare in pubblico di quella che – a quanto pare – non dovrebbe essere solo e semplicemente una fantasia personale.
I nostri lettori più affezionati hanno appreso alcuni aspetti della vicenda il 6 giugno, quando dedicammo alla questione l’articolo “Latte: i big parlano di rivoluzione e operano per l’oligopolio“. Come spesso accade in queste vicende, bisogna essere bravi a guardare oltre le parole, oltre le dichiarazioni d’intenti, al di là delle motivazioni ufficiali. E a farlo con quattro occhi e non solo con due è anche meglio; considerazione questa da cui prende spunto l’articolo che state per leggere.
Ad offrirci qualche ulteriore e buona chiave di lettura sono arrivati, a partire da martedì 14 giugno, gli acuti interventi (sul quotidiano “Prima Pagina Reggio”) di uno dei maggiori conoscitori del sistema dei formaggi di tipo grana, Umberto Beltrami (nelle foto), che dapprima ha stanato il Berni fuori dalle ragioni di facciata dei propositi dichiarati, poi lo ha colpito alla base del ragionamento di chi vorrebbe un patto tra i “cugini formaggi” nonostante la parentela sia molto alla lontana.
In sostanza: quale patto e quale affratellamento sarebbero mai possibili, se uno dei due è il formaggio del foraggio locale e l’altro è il formaggio dell’insilato di mais? Quale confronto è mai azzardabile, se la natura stessa dei due prodotti è così drammaticamente diversa? Ora, si badi bene: non tutti i Parmigiano Reggiano son più fatti univocamente “all’antica”: i mutamenti intervenuti dall’inizio dello scorso decennio hanno portato molti produttori di quel formaggio all’utilizzo di latte prodotto in allevamenti in cui i concentrati proteici vegetali, gli unifeed, la soia (Ogm) hanno reso marginale molta della sostanza legata all’alimentazione territoriale, e alla cultura dell’erba e del fieno.
Si badi bene: andando ben oltre il ruolo istituzionale di un consorzio che ha scelto di accontentare tutti ma che di fatto accontenta più i pesci grossi che i piccoli, il Beltrami si rivela personaggio tra i più legati alle produzioni d’antan, operando – in qualità di presidente del consorzio “La Culla” di Bibbiano – da quella che ci appare come la roccaforte della produzione più “classica” del “Re dei formaggi”, in cui i foraggi locali e il valore dei prati stabili polifiti (scarica qui il volume di Gabriele Arlotti “Bibbiano nella Culla del Parmigiano Reggiano” in pdf) non sono mai stati né dimenticati né messi da parte.
La nostra redazione, colpita dall’efficacia e dalla solidità del ragionamento del Beltrami, è andata a intervistarlo su questi temi:
Beltrami, in cosa non la convince l’idea di Stefano Berni? Pensare di uscire dall’attuale crisi attraverso una sorta di alleanza: lei dice che non funziona?
È la solita strategia dei padanisti: l’incremento della produzione che ha generato questa crisi – sono i numeri a dirlo – è dovuta innanzitutto al Grana Padano. Ma non solo: attraverso i messaggi pubblicitari il Grana Padano è riuscito ad affermare tra i consumatori un concetto errato, secondo cui Padano e Reggiano sarebbero simili. Entrambi a pasta dura, di tipo grana, certo, con il Padano che però costa meno. Fate attenzione: questo “abbraccio” nello stare vicini sugli scaffali della grande distribuzione per il Parmigiano rischia di essere un abbraccio mortale.
Il Grana Padano costa meno, e il consumatore non conosce le differenze. Ce le dice lei?
Il problema di base – lo ribadisco – consiste nel vedere il Parmigiano vicino al Grana nei punti vendita, pur essendo due prodotti assai diversi. Per di più il Padano è l’antagonista del Parmigiano, il suo maggior rivale. Sulle differenze la questione è semplice: il Parmigiano Reggiano è un formaggio fatto con latte di bovine alimentate “a foraggio”, mentre per il Grana Padano viene utilizzato latte di animali nutriti tutti i giorni con il medesimo silo-mais.
Il consumatore – è evidente – si trova ad essere disorientato di fronte ai messaggi contorti, falsi, celebrativi, elogiativi (“il più venduto al mondo”) che arrivano dal settore lattiero-caseario. Se tutto è uguale, se la qualità dei formaggi di una Dop è sempre la stessa, perché mai il consumatore dovrebbe pagare un prezzo più alto? Sceglierà – è ovvio! – il prodotto che costa di meno.
E cosa pensa dell’idea di istituire servizi comuni per i consorzi dei vari formaggi?
Penso che non bisogna mai ingannare i consumatori. Il Parmigiano Reggiano deve e dovrà sempre comunicare la propria distintività e unicità. Al limite si potrebbero proporre servizi comuni solo con altri formaggi Dop ma da latte di foraggio, a lunga stagionatura, con forme sui 40 kg, non da latte pastorizzato o con lisozima. Peccato però che ancora non ne esistano altri! Scherzi a parte, il nostro è il formaggio più imitato e mai eguagliato. Comunque, per quanto mi riguarda, mai servizi col Grana Padano.
E sulle due realtà, quali differenze vede, oltre all’alimentazione delle bovine, e alle diverse qualità dei latti?
Il dottor Berni non lo evidenzia, ma il vero problema, anche dopo la fine delle quote latte, è che il Grana Padano utilizza il 24% del latte prodotto da allevamenti che producono il 35% del totale del latte italiano; tutti ubicati nelle regioni del Nord, in cui si produce il 60% del latte italiano. Di fronte ad una situazione di mercato che penalizza fortemente il latte alimentare da silo-mais, ritengo indispensabile trovare delle soluzioni diverse e alternative.
Per il direttore Berni la soluzione alternativa consiste nel creare una “distanza” fra i formaggi simil-grana a pasta dura (non solo Grana Padano e Parmigiano Reggiano, ndr), diventati sempre più i trasformatori del latte alimentare (sia quello eccedente che quello pagato poco) e che ora insidiano il Grana Padano con le stesse metodologie con cui negli ultimi due decenni, il Grana Padano ha insidiato il Parmigiano Reggiano. Anche quelli sostengono che i loro formaggi “sono ugualmente buoni e costano di meno”. Ora i simil-grana sia italiani che esteri usano la stessa strategia del Padano e al Grana Padano non resta che tentare di avvicinarsi e allearsi con il Parmigiano Reggiano, per tentare di tracciare una propria differenza dai nuovi similari. Una differenza che forse non è così marcata.
In altre parole?
Il paragone con il ciclismo è calzante: è come se il ciclista-Grana-Padano, dopo aver sfruttato per decenni la scia del ciclista-Parmigiano-Reggiano si fosse accorto che una decina di altri atleti stanno sfruttando la sua scia. E che quindi per uscire dalla competizione con essi voglia tentare una strategia comune con il campione (il Parmigiano Reggiano), nella speranza di continuare a confondere gli spettatori-consumatori.
Un gregario che pur di non perdere la sua partita cambierebbe, se potesse, la sua casacca?
Due squadre totalmente diverse, due culture agli antipodi. La nostra casacca non saprebbero neanche da che parte infilarla. Pensi che nel territorio del Parmigiano Reggiano il 98,8% del latte prodotto viene destinato a Parmigiano. Questo è il vero legame di una Dop “dal-foraggio-al-formaggio”, a differenza della zona del Grana Padano, dove si produce latte per poi decidere se fare Provolone, Grana Padano o altri formaggi, nel caso in cui il latte non venga remunerato a sufficienza per essere destinato al confezionamento come latte alimentare “fresco”.
Se ci pensate bene, questo è tipico di una Igp (territorio esteso a 5 regioni, 33 province con abbondanza di allevamenti e pluralità di destinazione) non di una Dop. Dove sta il vero legame con il territorio quando da quel territorio si potrebbero produrre oltre 10 milioni di forme da 40 kg?
Da esperto del settore quale lei è, ci dia un po’ di riferimenti storici ed economici
Nel 1983 si varò un piano di autodisciplina fra i consorzi del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano; un piano che prevedeva di ripartire 130mila tonnellate all’anno di formaggio, da produrre – mi esprimo in termini percentuali – per il 51% al Parmigiano Reggiano e per il 49% al Grana Padano. Poi le “quote latte”, in vigore dal 1983-84, annullarono il patto. Nel 2015 sono state prodotte 3,3 milioni di forme di Parmigiano Reggiano – pari a 132.800 tonnellate – e 4,8 milioni di forme di Grana Padano, pari a 183.564 tonnellate. Ora il rapporto vede il Parmigiano Reggiano produrre il 40% e il Grana Padano il 60%. La maggior produzione di Grana Padano e la percezione che ha il consumatore – di essere di fronte a due formaggi simili – sono tra le cause principali della bassa redditività per i produttori di Parmigiano Reggiano (ai lettori di Qualeformaggio che vogliano approfondire, il presidente del consorzio “La Culla” mette a disposizione qualche documento, raggiungibile cliccando qui, ndr).
Una vicenda questa da cui il settore lattiero-caseario in generale può trarre qualche spunto di riflessione?
Nel considerare il latte tutto uguale e per di più di “alta qualità” – così dice la legge 169/89 – sia quello da silo-mais che da erba-foraggio, per tutto il settore lattiero-caseario il latte, quale che sia, rischia di diventare una commodity, annoverabile con i prodotti – non solo alimentari – richiesti dal mercato e offerti senza grandi differenze qualitative, indipendentemente da chi li produce. Se si continua a comunicare al consumatore che tutto il latte è uguale e che di conseguenza i formaggi a pasta dura Dop sono uguali o molto simili tra loro, quando il prezzo del Parmigiano Reggiano aumenta, va a finire che il consumatore si riversa prima sul Grana Padano e poi sul simil-grana.
I formaggi a pasta dura Dop rischiano di imitare (ci sono forti analogie) il Cheddar, che è il formaggio-commodity per antonomasia. La produzione complessiva di Cheddar nel 2015 è stata di ben 2,5 milioni di tonnellate. Una parte irrilevante è stata rappresentata dal Cheddar Dop e Igp: appena 20mila tonnellate, come una riserva indiana a rischio di estinzione.
Per concludere, ha qualche messaggio per il direttore Berni?
Al direttore del formaggio Dop più venduto propongo una prima e piccola mossa: “comunicare esattamente ai consumatori quali sono le differenze reali fra il suo formaggio e il Parmigiano Reggiano”, dalla alimentazione alla vita delle bovine alla qualità del latte, all’uso del lisozima, ai valori salutistici e nutrizionali. Poi colgo l’occasione per ricordargli che i bovini sono erbivori e ruminanti: se si continua a insistere con silo-mais, concentrati, Ogm, eccetera, prima o poi la natura presenterà il conto.
27 giugno 2016
Per saperne di più:
– per tutti i numeri del Parmigiano Reggiano 2015, clicca qui
– per tutti i numeri del Parmigiano Reggiano del distretto di Bibbiano 1915-2005-2015, clicca qui