Nessuno si illuderebbe mai di poter applicare correntemente ai propri prodotti agroalimentari i prezzi praticati in occasione del Salone del Gusto. Nessuno tranne l'assessore all'agricoltura della Regione Valle d'Aosta Renzo Testolin, che nel corso della conferenza stampa di presentazione del concorso "Fontina d'Alpage 2016", tenutasi a Valgrisenche mercoledì scorso 29 settembre, ha dichiarato che per il famoso formaggio valdostano il «prezzo corretto» dev'essere «sopra i 20 euro» al chilo, proprio come accaduto a Torino giorni fa, nel contesto della manifestazione organizzata da Slow Food. Una dichiarazione assai poco ambiziosa che malcela le non poche problematiche che da tempo attanagliano il formaggio più famoso della Vallée.
Eh sì, perché per un formaggio di tanta rinomanza, recriminare una remunerazione pari a 20 euro al chilo (o magari anche a qualcosa di più) non può che nascondere qualche problema, non proprio marginale. Una sensazione che, alla fine dell'incontro con i media, trova una risposta nelle parole degli altri relatori intervenuti. Da Livio Vagneur, presidente del Consorzio tutela Fontina Dop, a Nicola Rosset, presidente della Chambre valdotaine, al sempre presente Gerardo Beneyton, presidente di Caseus Montanus, la conferenza prende così la piega della lamentazione collettiva. Vedere quattro personaggi così in vista, con ruoli di così alta responsabilità affermare un tale stato di crisi non deve certo confortare né chi il mercato lo fa, cercando di farlo al meglio, né tantomeno i produttori che la Fontina s'impegnano a produrla secondo e anche meglio di quanto il disciplinare imponga.
Personaggi che, per i ruoli che ricoprono, le soluzioni dovrebbero trovarle nel fare quotidiano, anziché cercarle in pubblico, gettano ulteriore incertezza in una realtà che avrebbe meritato assai migliori sorti. Perché mai si giunge oggi a dichiarare, come fa Vagneur, che «La Fontina non va solo salvaguardata dalle contraffazioni ma anche dai comportamenti dei produttori»? Perché alcuni (e non pochi) produttori valdostani, come affermato dallo stesso presidente del consorzio, «troppo spesso tendono a non avvalersi della Dop»? Sarà davvero «per risparmiare il costo del marchio», come sostenuto da Beneyton? Sinceramente crediamo di no.
La chiave di lettura ce la propone involontariamente lo stesso presidente di Caseus Montanus, quando afferma che «molti allevatori-produttori di ottima fontina preferiscono l'automarchiatura del loro formaggio, magari con nomi e simboli diversi dal Dop». Una situazione questa che palesa – è evidente – ben altre problematiche, già viste in situazioni analoghe, quando all'interno di una denominazione operano allo stesso modo produttori virtuosi e produttori abitualmente in precario equilibrio sui dettami di disciplinari che – modifica dopo modifica, appaiono sempre più laschi. Vale a dire: "produco un buon formaggio: chi me lo fa fare di restare in una "squadra" che mantiene in sé produttori non alla mia altezza?"
Non è forse per questo che diverse valide aziende, una dopo l'altra, si son chiamate fuori dalla Dop, giocando sul mercato la carta della propria personale credibilità su cui devono rispondere ciascuno solo a sé stesso? Se la crisi della Fontina è tutta qui, o se lo è in gran parte, la soluzione è nelle mani di chi lamenta la crisi. Bisogna applicare misure adeguate, premiare (e non solo con le medaglie ai concorsi) chi produce qualità, operare una chiara politica dell'informazione al consumatore per evitare a chi acquista Fontina Dop a 12 euro di pensare di aver messo nel carrello l'eccellenza premiata al concorso. Sono questi, a nostro avviso, i primi correttivi da attuare per risollevare le sorti di una realtà diffusa – quella dell'eccellenza, oggi in parte dentro e in parte fuori dalla Dop – che meriterebbe di ritrovare, attraverso una buona gestione, il prestigio conquistato negli anni migliori.
3 ottobre 2016