Capre inselvatichite nei Grigioni: il rischio sanitario decreta la loro condanna a morte

   Chi ha frequentato anche solo un po' qualche allevatore di capre, lo sa: a stare con quelle bestie lì, ad averne anche solo qualcuna, per reddito o anche no, finisce che ti prende la "malattia". Qualcosa di più di una semplice passione, qualcosa che ti entra dentro per non lasciarti più nella vita, che tu le capre le abbia ancora oppure no.

Che ciò dipenda da questioni ancestrali, che affondano le radici nella storia della domesticazione animale, o che dipenda da una qualche dote della specie caprina, non è dato saperlo. Sta di fatto che con le capre si instaurano legami talmente forti, solidi e duraturi, che superano la passione e vanno a sfiorare le corde del cuore.

Al mondo esisteranno centinaia di migliaia di caprai, un vero e proprio esercito di allevatori appassionati. Di una di loro in questi giorni, purtroppo, hanno parlato molto i media della Svizzera italiana, per una disavventura che mai augureremmo a nessun capraio al mondo. Paola Casagrande, questo il suo nome, sino all'inizio dell'estate del 2015 viveva con le sue 34 capre in Val Mesolcina, nel Canton Grigioni di lingua italiana. Una vita tranquilla la sua, almeno sino a quella maledetta stagione di alpeggio in cui decise di affidare il suo piccolo gregge ad un "alpigiano" della sua zona, come già aveva fatto in passato. Un alpigiano (o alpeggiatore, fate voi) che di lì a qualche giorno avrebbe caricato i pascoli più alti, in località Pian San Giacomo, nel comune di Misocco.

Bene, anzi male, perché a fine stagione, con la desarpa, di capre a Paola gliene furono riconsegnate appena 11. A riportargliele fu l'alpeggiatore stesso, che, tanto per essere chiaro sin da subito, spiegò che erano capitate proprio tutte a lui, che non era questione di negligenza o dolo. Ma il dubbio sul personaggio c'è, se abbia operato o meno secondo scienza e coscienza. Perché anche la conduzione di greggi e mandrie ha la sua scienza (esistono fior di trattati universitari, e di saggi, antichi e moderni, che ne trattano) e anche gli alpeggiatori hanno una coscienza.

Ma non solo, perché in questa assai poco felice vicenda emergono questioni relative ai diritti e ai doveri, trattati dal Codice Civile, ai contratti da sottoscrivere e rispettare, oltre i quali – ci auguriamo – esistono anche gli avvocati, i tribunali e la giustizia. Che quantomeno in Svizzera, su queste tematiche, non dovrebbe avere nulla da invidiare ad altri Stati del Nuovo Continente.

Ma torniamo al malghese, o alpeggiatore che dir si voglia: riconsegnando meno di un terzo del gregge alla legittima proprietaria, tra un "non saprei" e un "non ricordo", dalle sue parole inizia a trapelare la verità: 2 delle capre "erano morte" non si sa bene come, e le altre 21 "non era stato più possibile avvicinarle". Come se di punto in bianco le capre decidano di inselvatichirsi. Una versione che non sta in piedi, neanche un po'.

Ad ogni modo, alla fine dal suo racconto trapelano con buona approssimazione i come e i perché di quanto accaduto: dopo un periodo di abbandono – totale o relativo, poco importa – rispetto alla gestione in cui erano abituate con la loro proprietaria, gli animali, quello più quello meno, avevano iniziato ad assaporare una cosa che si chiama libertà, che è lontana 9mila anni dalle capre dei nostri giorni, e che non possiamo sapere che effetto possa aver prodotto su di esse.

È possibile pensare che, un poco alla volta, ci abbiano preso gusto, ed è evidente che se non c'è lì qualcuno a governarle, anche nei comportamenti, prima o poi arriva il giorno in cui il vincolo con gli umani si spezza. Accade così che quando la natura torna a far sentire talmente forte il suo fascino, da spazzar via ogni inibizione e indugio, gli animali – forse, chissà, sentendosi traditi – capiscono di non avere un gran bisogno dell'uomo, o della donna che sia. Di storie come queste se ne raccontano in ogni vallata alpina, che siano accadute cinque anni o cinque generazioni fa, poco conta: diversi erano i loro allevatori, assai più di quanto lo fossero esse, le une dalle altre, e quelle di secoli fa con le attuali.

E così è accaduto che settimana dopo settimana ha sempre più preso corpo un epilogo ineluttabile, una volta accertata l'impossibilità di accedere alla zona (oltre i 2mila metri di quota, molto accidentata e inaccessibile forse anche all'elicottero, ndr): le capre inselvatichite sono un vettore di possibili contagi, venendo a contatto con gli animali selvatici. E così, per un bene sociale che probabilmente Paola non ha colto, ma che è evidente (il rischio di epidemie, ndr), la sentenza è stata firmata, dal competente ufficio di Coira, ed è stata una sentenza di morte. Le capre abbattute dal guardiacaccia, alla presenza del veterinario comunale, il trasporto delle carcasse presso i locali della sanità veterinaria locale, e, verosimilmente, qualche tassa o multa non proprio leggera da pagare.

A nulla sono valse le proteste, gli appelli, sinanco le minacce (di citare in giudizio chi ne ha disposto l'abbattimento, ndr) di un'allevatrice colpita nel dolore profondo di una perdita così grande. Un dubbio a noi in verità rimane, ed è forte, e forse anche più di uno: Paola stessa non ha compiuto nessuna leggerezza nell'affidare le sue amate bestioline ad un uomo tanto inaffidabile (se è vero quanto emerso dalle cronache, vale a dire una figura non proprio affidabile)? Non c'era altra soluzione per il periodo estivo che mandarle in alpeggio? E perché avere con sé delle capre – amate capre – se poi si deve delegare a qualcun altro, con esse, una parte dei propri affetti?

Per chi volesse saperne di più, la vicenda, nei suoi fatti di cronaca, è ben raccontata qui dal quotidiano locale online La Regione. Ed è una vicenda che a nessun capraio augureremmo di dover mai vivere.

14 dicembre 2016