5% di lupi in meno? Anche 6, ma il fucile datelo agli allevatori

foto pixabayAncora tre giorni e sapremo, mercoledì 2 febbraio, se il "Piano di Conservazione del lupo" – approvato martedì scorso dalla Conferenza Stato-Regioni – verrà accolto dal Governo, o meno. Il piano, scritto con la consulenza di settanta esperti, prevede l'abbattimento controllato del 5% della popolazione lupina italiana.

Le reazioni alla misura, nata finalmente per frenare l'incontrollata presenza del predatore e per difendere gli allevatori da una mattanza sempre più seria e diffusa, ha sollevato molte polemiche. Polemiche che di fronte alla gravità della situazione (un'infinità di aziende zootecniche hanno chiuso, chiudono e chiuderanno a causa dei lupi, ndr) appaiono senza alcuno spessore. Proteggere per proteggere, di fronte alla mattanza quotidiana e al crescente rischio per l'incolumità delle persone (i lupi ormai si avvicinano senza più timore alle abitazioni: le testimonianze sono decine, ndr), non ha altro senso, se non quello di difendere i propri (loro) interessi. Cosa producono queste associazioni? Nulla. Quanto raccolgono dai finanziamenti pubblici dedicati al sostegno delle loro verbose cause? Miliardi di euro. Per fare cosa? Per quale utilità?

Quel che resta di un cane da guardiania predato dai lupi. La foto è stata tratta da Facebook, che l'hai poi censurata. La verità darà forse fastidio a qualcuno?Le piccole aziende zootecniche producono – con fatica – il meglio che il "made in Italy" immette sul mercato (fatta la tara di tanta produzione di "plastica" resterebbe ben poco) e svolgono un presidio dei territori marginali dall'impareggiabile valore economico, sociale e ambientale, spesso con ricadute positive sul turismo (che panorami avremmo senza il pascolamento? gineprai e sterpaglie: piacerebbero ai turisti?). Su tutto ciò le varie associazioni animaliste – che nella gran parte dei casi si occupano anche di tematiche ambientali – tacciono. Perché?

Tornando al Piano lupo, i settanta esperti, hanno previsto ventidue azioni tese a favorire la convivenza tra lupi e attività agrozootecniche. Misure che tengono in considerazione l'incontrollato (e non quantificato) aumento di questi animali selvatici e le sue conseguenze per mandrie e greggi. Il Piano indica una serie di misure da prendere per tutelare gli allevamenti, dalle recinzioni speciali (non sempre utilizzabili, ad esempio su terreni scoscesi e rocciosi) ai rimborsi (spessissimo in ritardo e mai possibili per tutti i capi, ad esempio per quelli dispersi, o per le lattifere che a seguito dello spavento vedono a lungo ridotte la loro produttività).

La misura più controversa è la n.22, che prevede un abbattimento controllato del 5% dei lupi esistenti in Italia, previo un piano regionale approvato dal Ministero dell'Ambiente. Questa percentuale, secondo gli esperti, non mette a rischio la presenza del lupo in Italia. "Se non facciamo questo", spiegano, "il bracconaggio diventerà lo strumento di tutela degli agricoltori. E allora davvero la sopravvivenza del lupo sarà a rischio". L'illazione contenuta in questa affermazione non brilla di rispetto nei confronti di chi già è sufficientemente vessato da questa situazione. Per colpire il bracconaggio, o chi pensa di farsi giustizia sommaria, esiste una legislazione sufficientemente severa. E attività di controllo e dissuasione spesso smisurate, nei termini di risorse e azioni attuate (ci mancano solo le teste di cuoio per qualche lupetto sparato o avvelenato, ndr).

E pensare che la soluzione ci sarebbe, per risolvere semplificando, senza pregiudicare nulla: anziché armare tiratori scelti, applicare le regole vigenti ad esempio in un Paese civile come la Svizzera. Una volta che un lupo supera un certo numero di predazioni (35 pecore o capre nell’arco di quattro mesi, o 25 animali da reddito nell’arco di un mese, ndr), rompendo un equilibrio tra le varie specie zootecniche che va mantenuto, il lupo viene eliminato. Punto e a capo.

Altrimenti – e perché no? – che si agisca inducendo il lupo a cacciare prede meno "comode" di pecore, capre e vitelli, vale a dire cinghiali (che un po' sanno difendersi) e caprioli (che, a differenza delle lattifere, sanno correre). Cinghiali e caprioli che peraltro – come i lupi – si sono espansi in maniera sempre più incontrollata, danneggiando ulteriormente le nostre montagne e campagne. In un sol colpo si ridurrebbero tre problemi non indifferenti, legati alle tre specie.

Ma come indurre i lupi a tornare verso lo scomodo selvatico? Sembrerà provocatorio a qualche benpensante, ma la soluzione a nostro avviso sarebbe funzionale oltre che semplice, e risiederebbe nel consentire ai contadini, agli allevatori, ai pastori, di difendere i propri animali.  Permettere loro di avere almeno un'arma, di metterli in grado di utilizzarla nelle pertinenze aziendali e nei terreni destinati al pascolamento, anche se in affitto stagionale. Ovviamente guidando l'operazione attraverso specifici corsi (già ne fanno tanti, a volte di scarsa utilità, ndr) che permettano di acquisire tutte le conoscenze e le capacità pratiche necessarie per attuare un piano del genere. In pochi anni la gran parte dei lupi tornerebbe da dove è venuta. E molti di questi problemi sarebbero alle spalle, assieme alle stupide polemiche di questi giorni.

30 gennaio 2017

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