L’industria nega le libertà: alle vacche di brucare, ai giornalisti di criticare

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È un po’ di tempo che l’industria del latte studia come uscire dalla morsa dissuasiva di un animalismo sempre più aggressivo, che induce un numero crescente di consumatori ad allontanarsi dalla bianca bevanda e dai suoi derivati. Un animalismo che porta i suoi attacchi tanto direttamente – tramite i social network – quanto indirettamente – attraverso i media – additando insistentemente l’industria del latte al ruolo di corresponsabile delle sofferenze animali. Strumenti sempre più importanti di questa strategia sono un certo giornalismo e un’editoria troppo spesso schierati, a volte allineati sulle posizioni più becere ed estremiste.

Bere latte, nutrirsi dei suoi derivati, pesa sulla coscienza di una parte sempre più ampia di consumatori, dopo che una bella fetta di essi se ne è già allontanata, anche a seguito del martellamento di campagne mediatiche infamanti e criminalizzanti, quasi mai oneste sino al punto di proporre la necessaria distinzione tra una zootecnia intensiva o industriale (quasi mai altamente intensiva in Italia come accade negli Usa; questo va detto) e una estensiva e naturale, biologica o assimilabile al biologico (chi fa pascolo transumante, ad esempio), largamente più rispettosa delle esigenze animali.

La prima, ormai immemore del fatto che i ruminanti siano erbivori, persegue come fine principale – se non unico – una produttività più o meno spinta, ottenuta snaturando l’animale stesso, che in quelle dimensioni (in una stalla a vita) perde comunque la sua dignità, in nome del profitto (l’alimentazione a base di mais insilato e di altri mangimi, come l’unifeed, si ripercuote sulla salute dell’animale e sulla sua longevità); la seconda invece vede l’animale molto più assecondato e libero di vivere nella sua natura, alimentato con fieno e/o con erba e modeste integrazioni vegetali (cereali, leguminose). Un animale che nella zootecnia estensiva è libero di muoversi all’esterno del suo ricovero notturno, in spazi adeguati ad esercitare correttamente e a fondo le proprie funzioni fisiologiche: muoversi, calpestare terreno, essere irradiato dal sole, annusare l’aria, scegliere l’erba di cui nutrirsi, quantomeno nella stagione buona, e fare tutto ciò, liberamente, quantomeno per una metà dell’anno. Scegliere persino di non brucare nelle vicinanze di una simile, se da quella ha subito qualche angheria.

Le responsabilità dei media
Dicevamo dei giornali e dei giornalisti. Tra di essi sembra essere in corso una competizione, una gara all’accaparramento del consenso, che porta spesso gli editori a tacitare il senso della ragione e quello dell’equilibrio in nome del “dio click”, già che le vendite in edicola seguono un calo esponenziale irreversibile. La gara a chi porta dalla sua il maggior numero di lettori “sensibili alla causa animale” si gioca a suon di articoli e rubriche che – sempre più dichiaratamente – strizzano l’occhio non più al comune animalista (crediamo esista ancora, anche se pare essersi nascosto bene) bensì al più bieco e viscerale animalismo.

Guai a criticare la liberazione notturna dei visoni ad opera di esaltati e stupidi personaggi mossi da irrefrenabili pulsioni, anche se i poveri animaletti finiscono per predare altri animali, talvolta domestici (in genere gatti, nei paraggi delle loro case, ndr), prima di terminare la loro esistenza sotto le ruote di qualche automobile. Mai un giornalista che si prenda la briga poi, con l’approssimarsi della Santa Pasqua, di indagare sulla fine fatta dai teneri “agnellini” e capretti “salvati” negli anni precedenti. Messi “in sicurezza” da intrepidi personaggi dal “cuore d’oro” e dall’acume di un invertebrato e diventati inevitabilmente arieti e becchi, ma gestiti poi dove, e da chi? E destinati a vivere quale vita?

Le contromosse dell’industria
Di fronte alla progressiva fuga della gente dal latte, dalla carne e dai loro derivati, l’industria ha sempre più bisogno di affilare le armi e di dotarsi di nuovi e più efficaci strumenti di persuasione. Archi da cui scoccare i propri dardi melliflui e rassicuranti verso un consumatore che ha tra le sue “colpe” quella di essere spesso distratto o “disarmato”, nella sua scarsa conoscenza.

Da un po’ di tempo a questa parte sembrano non bastare più le campagne pubblicitarie in cui le principali aziende del settore mostrano vacche che non daranno loro mai latte – quelle del pascolo, scomodate in occasione delle campagne pubblicitarie su verdi pascoli alpini – giungendo ad affermare, se non del tutto il falso, delle mezze verità.

Le campagne pubblicitarie autocelebrative non bastano più, ed è giunto il momento di farlo dire ad altri che si è “buoni, puliti e giusti” più di altri, anche se non lo si è sino in fondo. A capire che l’industria agroalimentare sarebbe occorsa in questa necessità sono giunte da tempo le associazioni animaliste, ma non tanto quelle storiche, che si accontentano di arrotondare i loro lauti proventi (fondi pubblici, donazioni, etc., e come felini sazi, mancano dello scatto di quello che è affamato, ndr) con qualche patrocinio peloso, quanto piuttosto quelle emergenti.

Tra di esse una brilla tra tutte ed è quella di CiWF (Compassion in World Farming). Sbocciata nel nostro Paese nel 2011, l’associazione – nata senza fini di lucro nel 1967, dall’iniziativa di Peter Roberts, un piccolo allevatore inglese di vacche da latte intenzionato a difendere la dignità degli animali d’allevamento – l’associazione ha fatto il suo esordio nel mondo lattiero-caseario attraverso una prima apparizione al Cheese di Bra del 2013, attivandosi in tavole rotonde e altre attività condivise con Slow Food e lanciandosi poi presto, oltre l’apparizione braidese e senza dove dividere meriti e demeriti con nessuno, nell’ardita costruzione del “Premio Benessere Animale”. Un premio e una manifestazione che annualmente assegna arbitrari riconoscimenti, destinati alle aziende che si sono distinte nella migliore zootecnia possibile, purtroppo secondo criteri non troppo prossimi a quelli del suo padre fondatore, che nel frattempo si rivoltrà nella tomba.

Per afferrare la credibilità e il senso dell’iniziativa, basta scorrere la lista delle aziende premiate in questi anni. Per necessaria brevità, pubblichiamo (in ordine alfabetico) solo alcuni dei nomi che brillano nella speciale classifica:
– Amadori
– Barilla
– Burger King
– Cremonini
– Coca Cola
– Coop Italia
– Ferrero
– McDonald’s
– Unilever

Non soddisfatti di ciò, e seguendo con attenzione le necessità delle industrie del settore, i prodi paladini degli animali da reddito hanno deciso così di attivarsi ancor più concretamente in favore di esse, guardando il mondo dell’intensivo e correndo a salvare di esso tutto il salvabile possibile. Nelle stalle c’è il business; fuori da esse un mondo rurale di cui interessarsi per qualche spunto redazionale, per retoriche di comodo e per accaparrarsi qualche fotografia utile al proprio tornaconto.

Nuove armi di persuasione di massa
Siamo arrivati così all’oggi, e l’oggi ci porta a vedere un’attività mediatica elevatissima sul fronte del benessere animale. Come per la biodiversità, tutti ne parlano, tutti pensano di sapere cos’è, ma in pochi sanno davvero come andrebbe garantita la dignità di un animale a cui dovremmo chiedere scusa mille volte al giorno, se costretto all’interno di una stalla per tutta la sua sciagurata esistenza.

Un benessere animale, dicevamo, quasi sempre proposto in maniera relativa, vale a dire guardando unicamente all’interno della moderna zootecnia, che deve dare profitto, mettendo il profitto sopra ogni altra cosa, non dimentichiamolo mai. Articoli giornalistici (qualcuno li chiama marchette, ndr) quasi sempre tesi non a sostenere il benessere animale in quanto tale, ma sempre e solo a legare un benessere animale relativo se non fittizio (vedremo tra poco i perché) al nome dell’una o dell’altra industria. Bene, bravi, bis.

Ed è proprio in quest’ottica che il CiWF ha attivato una nuova proposta (è evidente dagli articoli circolanti sul tema da qualche tempo: cercarteli su Google inserendo “benessere animale“, compreso tra virgolette, e aggiungendo le parole libertà, ciwf: ve ne renderete conto) – da affiancare alla splendida vetrina del suo annuale “Premio Benessere Animale”. Una proposta legata al programma di valutazione del cosiddetto “benessere animale” denominato CReNBA, che prende il nome dal Centro di Referenza Nazionale per il Benessere Animale nato all’interno dell’IZSLER (Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia ed Emilia Romagna) di Brescia. Un'”autorità scientifica” che, si legge nel sito web dello stesso istituto, è “deputata a fornire sostegno scientifico alle autorità competenti”. Ma evidentemente anche alle industrie che ne vogliano usufruire, per qualche tramite.

Capita quindi ormai spessissimo – fateci caso – di imbattersi in articoli-fotocopia, frutto di comunicati stampa presi e pubblicati spesso tal quali da redazioni che non sanno mai dire di no (è uno dei vizi della stampa italiana) ad inserzionisti peraltro a volte solo potenziali. Articoli incorniciati da titoli dedicati al rispetto degli animali e da foto altamente persuasive (le mai troppo sfruttate immagini di vacche sul pascolo alpino) in cui si parla delle 5 libertà concesse che il CReNBA è riuscito a focalizzare nella stalla. Leggete ora bene quali esse siano, all’interno – lo sottolineaiamo ancora – di una stalla:

1. la libertà dalla fame e dalla sete, quindi disponibilità di acqua fresca e di un’alimentazione che mantenga l’animale in buona salute;

2. la libertà di avere un ambiente fisico adeguato che includa aree di riparo e zone di riposo;

3. la libertà da dolore, ferite e malattie attraverso prevenzione, diagnosi tempestive e cure;

4. la libertà di manifestare comportamenti specifici grazie a uno spazio sufficiente, a un ambiente adeguato e alla compagnia di esemplari della medesima razza;

5. la libertà dalla paura e dal disagio grazie a condizioni e cure che scongiurino sofferenze psicologiche.

In effetti, quello del CReNBA appare una sorta di “compitino” ben scritto e proponibile a chi non eserciti il beneficio del dubbio, quindi a molti, moltissimi consumatori, e a molti moltissimi giornalisti. Ma non a tutti. Un compitino redatto da chi ha guardato unicamente dentro la stalla

Per capire il benessere animale – quello vero – e per comprendere le libertà di cui gli animali hanno bisogno, tanto i tecnici dello zooprofilattico bresciano che gli animalisti di CiWF avrebbero bisogno di guardare anche fuori dalla stalla, per capire tutte le libertà negate che ancora mancano – libertà fondamentali, che mancheranno per sempre – alla zootecnia intensiva:

6. la libertà di muoversi all’aperto

7. la libertà di calpestare terra e non cemento

8. la libertà di annusare l’aria

9. la libertà di sentire il vento sulla propria pelle

10. la libertà di nutrirsi di erba e non di mangimi, essendo degli erbivori

11. la libertà di scegliere ora trifoglio ora festuca, ora lupinella, assecondando le proprie esigenze fisiologiche

…e poi e poi, chissà quante altre libertà che adesso ci stanno sfuggendo!

La libertà delle lattifere e quelle della stampa
Giorni fa il nostro direttore responsabile Stefano Mariotti ha toccato queste tematiche, rilanciando sul suo profilo Facebook una delle recenti pubblicità a cui questo articolo poco fa alludeva (“le 5 libertà bla bla bla“), invitando i lettori a vedere quella per ciò che era: una sonora presa in giro per il consumatore medio.

Nell’arco di poche ore il suo profilo è stato oscurato. La motivazione ufficiale addotta da chi amministra il social network: il nome del profilo (Stefano Qualeformaggio Mariotti) è stato segnalato a Facebook come falso.

Bene, anzi no, perché a distanza di giorni, dopo aver inviato il proprio documento e aver accettato di perdere quel “nickname” tra nome e cognome, nulla è più accaduto.

Generalmente il social network del signor Zuckerberg sblocca il profilo “irregolare” nel giro di poche ore dall’invio del documento. Questa volta, dopo due giorni e forse più, nulla è accaduto.

La nostra ipotesi (ma siamo sicuri sia anche quella di molti di voi) è che l’industria promotrice di quella pubblicità abbia segnalato quel post come calunnioso nei propri riguardi. Se così fosse si dimostrerebbe che le ragioni di un’industria hanno più peso di quelle di un privato cittadino il quale (ci è accaduto due volte, ndr) trovandosi a denunciare allo stesso social network contenuti illegali (immagini violente, apologie di vario genere, etc.) si è visto rispondere che il post segnalato (per quanto fuorilegge per il codice penale italiano) per Facebook ha tutto il diritto di rimanere pubblicato.

Come vedete, se da un canto la stampa è libera di raccontarvi verità di comodo per compiacere le industrie (abusando della buonafede dei lettori), la libera stampa (che è altra cosa) non è altrettanto libera di dire ciò che pensa, di criticare e di esprimersi come la Costituzione teoricamente garantirebbe.

“La libertà non è star sopra un albero”, cantava il grande Giorgio Gaber. Nel nostro caso sarà un tema su cui ci “divertiremo” ad agire in tutte le sedi possibili. Non è detto che la leggenda di Davide contro Golia non si debba ripetere ancora una volta.

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8 maggio 2017

(aggiornato il 12 maggio alle 20:26)