Saranno trent’anni, occhio e croce, che il termine “repressione di Stato” non viene usato, e oltre cinquanta bisogna risalirne per trovare il polso duro governativo in ambito agricolo, ai tempi delle proteste contro il latifondismo. I tempi cambiano, i metodi sono ora meno cruenti, ma tant’è che i caricatori d’alpe del Bitto storico, depositari di una tradizione millenaria e di una cultura autentiche, non potranno più chiamare il Loro Formaggio col Proprio Nome: Bitto.
A comunicarglielo sono stati alcuni funzionari del ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali giunti al Centro del Bitto di Gerola Alta appositamente da Roma. Gente che si muove solo per le grandi occasioni, nella fattispecie non per ammonire o tentare di conciliare, ma per sanzionare. E duramente. Due multe quindi sono state elevate, per un totale di 60.000 Euro massimi (al momento non è dato conoscere l’esatto ammontare dell’”operazione”) per via del “mancato assoggettamento ai controlli previsti per la produzione Dop” e dell’“usurpazione della denominazione protetta Bitto”. Paradossale, a voler vedere la realtà storica, e la vera oggettività delle cose, al di fuori delle logiche strumentali di un sistema come quello delle Dop, sempre più modellato sugli interessi delle lobby.
Chi voglia ben guardare nei meccanismi dei consorzi dei prodotti Dop, Igp ed Stg scoprirà che un allevatore con cinquecento vacche ha un potere decisionale dieci volte maggiore di uno che ne possegga cinquanta, e che l’Italia ha costruito in questi ultimi anni una vera e propria tendenza all’allargamento delle aree di produzione (che in Francia vengono ristrette, ndr), senza imporre alcun limite massimo di resa lattea significativo e realizzando di fatto un allontanamento dai vincoli territoriali che sempre più spesso si fa poi apprezzare al palato (perdita di identità locale, globalizzazione).
Tornando al “Bitto” (d’ora in avanti bisognerà mettere le virgolette a quello che sarà in commercio, visto di fatto la sua lontananza dal Bitto di origine), a poterlo fare ancora, e a poterlo chiamare con quel nome, saranno per lo più produttori che prima della Dop facevano altri formaggi (in genere “Valtellina d’Alpe”, denominazione che abbracciava diversi formaggi di montagna, alcuni con una certa dignità, poi scomparsi, ndr), distribuiti per lo più in vallate in cui il Bitto non lo si era mai prodotto, prima della Dop.
“Nel caso del formaggio Bitto”, scrive sul suo sito il professor Michele Corti dell’Università di Milano, “si assiste al paradosso di una Dop che tutela una produzione ‘similare’ realizzata in un’area geografica molto allargata e con metodi di produzione ‘faciliati’ (integrazione dell’alimentazione al pascolo con mangimi per aumentare la produzione di latte, aggiunta di fermenti selezionati al latte per ‘pilotare’ i processi fermentativi e ‘facilitare’ la lavorazione casearia, utilizzo facoltativo dell’aggiunta del latte di capra che esonera dal mantenimento di un gregge di capre da latte in alpeggio). Quel che è più grave e francamente inconcepibile è che la tuteli dal prodotto realizzato nell’area storica di produzione, e con i metodi tradizionali”.
Che piega prenderà questa vicenda è presto per dirlo, dato che gli attori in campo sono più di quelli evidentemente schierati. Oltre al consorzio di “tutela”, il ministero di Luca Zaia e la Valli del Bitto Trading (l’entità multata dal ministero, a cui fanno capo i produttori di Bitto storico), ma guardando un poco più in là e un po’ meglio la lista si allunga, e pesantemente, se ci si mette a contare quanti – e chi – hanno a cuore le sorti del Bitto storico: da quelli di Slow Food (che nel 2003 ne fece un Presìdio, divenuto nel tempo bandiera di biodiversità e autenticità a livello mondiale per la sua esemplare conduzione) a studiosi di caratura internazionale come Gina Poncini e Fausto Gusmeroli, a giornalisti seguiti come Licia Granello, Francesco Arrigoni, Paolo Marchi.
Proprio di quest’ultimo, che oltre a scrivere per Il Giornale è artefice di Identità Golose, sono le sacrosante seguenti parole, “se tutte le novità dovessero divenire esecutive, i produttori di Bitto Storico, l’unico per il quale sono giustificate pazzie – poche centinaia di forme che nascono negli alpeggi in quota delle Valli del Bitto, spaccature laterali rispetto alla Valtellina – rischiano di non potere più chiamare Bitto il vero Bitto. Sarebbe come se esistesse solo il Balsamico e quello Tradizionale dovesse cercarsi un altro nome per non dare fastidio al caramello della grande industria. Vi immaginate se si potesse chiamare auto solo la Duna e non la Ferrari? No? Invece sarebbe così”.
È curioso infine notare che l’intervento dei funzionari del Mipaaf presso il Centro del Bitto, a Gerola Alta (reso noto attraverso un articolo di Roberto Burdese di Slow Food apparso sul quotidiano La Stampa di Torino il 1° novembre scorso) sia avvenuto il 20 ottobre, a soli due giorni dalla chiusura della Mostra del Bitto (un evento oramai ad uso e consumo del consorzio). Casualità o segnale, il dado è tratto. La “Guerra del Bitto” si appresta a iniziare la sua fase finale, e a giudicare dagli schieramenti in campo, si presume che sarà avvincente oltre che esemplare. La redazione di QualeFormaggio.it la seguirà per voi con il tempismo e la partecipazione che l’hanno sempre distinta.
7 novembre 2009
Per saperne di più…
• Novembre 2003 – Le premesse. La superiorità del Bitto Valli del Bitto 1a parte 2a parte
• Aprile 2005 – Il Bitto si spezza in due 1a parte 2a parte
• Estate 2005 – Una firma cambia la storia? 1a parte 2a parte
• Novembre 2005 – Valli del Bitto: stop alla marchiatura
• Primavera 2006 – Il Bitto storico perde il nome
• Novembre 2006 – Bitto: consorzio in bilico
• Maggio 2007 – Bitto story verso Bruxelles
• Inverno 2007-2008 Bitto: Regione Lombardia al bivio 1a parte 2a parte