Settecento pecore sono barcate in Abruzzo dalla Sardegna, tre giorni fa, in segno di quella comunanza pastorale e spirituale che da tempo unisce le due regioni, e che i pastori dell’isola hanno voluto inviare ai fratelli di quelle terre colpite dal terremoto, in segno di vicinanza e di concreta solidarietà.
Pecore che portano con sé un messaggio di speranza e di fiducia, ma che potrebbero anche non avere vita facile in Abruzzo. «I pascoli che sembrano abbondare nel nostro territorio», ci scrive Nunzio Marcelli, presidente dell’Arpo (Associazione Regionale Produttori Ovicaprini d’Abruzzo), «sono oggi terreno di uno scontro economico che li vede contrattati e acquistati da società o singoli con disponibilità di capitale non paragonabili a quelle delle aziende tradizionali del mondo pastorale».
Questi territori, che una volta venivano percorsi liberamente dalle greggi, grazie a Federico II, sono diventati oggi un terreno fertile sì, ma per “coltivare” i contributi europei. Il loro valore di mercato è lievitato a dismisura, in un mercato drogato dai sostegni economici della Comunità Europea, ed erogati dallo Stato e dalla Regione.
«Il fatto è», spiega Marcelli, che gli uffici ministeriali e quelli della Cee sono troppo lontani dai pascoli e dalla loro realtà per capire quel che accada». E così, regole nate per favorire la presenza degli animali al pascolo (la così detta “estensivizzazione”, ndr) e che prevedono un minimo di terreni per ogni animale, hanno invece prodotto, in assenza di controlli sul territorio, un mercato alterato, in cui la disponibilità di capitale ha consentito a pochi mercanti senza scrupoli, e spesso senza alcun legame col territorio, di accaparrarsi terreni a prezzi che nessun alevatore tradizionale locale potrebbe sostenere.
«Col risultato che quei terreni», insiste il presidente dell’Arpo, «rendono due volte: prima come fonte di contributi europei, nonostante le mucche non le abbiano viste nemmeno in cartolina; poi, come frutto di subaffitti agli allevatori locali, costretti ad accettare condizioni capestro per poter fruire dei loro stessi pascoli, espropriati da pratiche illegittime. Subaffitti che non sono consentiti dalla normativa, ma in assenza di controlli il mercato nero prospera».
E così accade che il denaro dei cittadini Ue, italiani inclusi, anziché essere impiegato per i buoni motivi per cui viene erogato (garantire la biodiversità, mantenere in vita le pratiche d’allevamento tradizionali e rispettose dell’ambiente, assicurare che il carico di bestiame sui pascoli non sia eccessivo e non alteri l’equilibrio dei terreni e delle falde acquifere, etc, ndr) «diventa», è di nuovo Marcelli che parla, «strumento di pratiche immorali che arricchiscono coltivatori senza scrupoli e costringono sempre più le aziende tradizionali a chiudere». A chi giova questa situazione, in cui personaggi di dubbia moralità speculano nel silenzio delle istituzioni preposte al controllo?
«Questa insostenibile situazione», conclude il pastore abruzzese, «è contraria allo spirito con cui sono stati concessi i contributi europei, compromette il tessuto sociale ed economico della nostra regione (ma in diverse altre regioni accadono fatti analoghi, ndr) e la biodiversità del nostro territorio. È così che gli allevatori abruzzesi si sono associati per promuovere collettivamente un ricorso alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, affinchè sia garantito il rispetto delle normative comunitarie e siano immediatamente bloccate queste speculazioni ai danni delle aziende tradizionali agropastorali e dei contribuenti».
Gli allevatori abruzzesi hanno inoltre annunciato una mobilitazione generale che affiancherà la presentazione del ricorso al fine di informare l’opinione pubblica e sensibilizzare le istituzioni perché i pascoli regionali non siano oggetto di un mercanteggiare e di una coltivazione di contributi europei che nulla hanno a che fare con il mantenimento del territorio e delle migliori tradizioni d’Abruzzo.
22 novembre 2009