Si è svolto lo scorso sabato, 17 aprile, a Breno, in provincia di Brescia, il convegno “Una montagna di biodiversità” con cui AmAMont (Amici degli Alpeggi e della Montagna) ha voluto celebrare in modo informale l’anno internazionale della biodiversità, appunto. L’incontro, che è stato introdotto da Elena Broggi, vice-presidente della Comunità Montana Valle Camonica, sui temi del sostegno alle aziende di montagna e alle loro produzioni tradizionali, è stato moderato da Antonio Raschi, direttore del Centro di Biometereologia del Cnr, a Firenze.
Nei suoi interventi Raschi ha sottolineato come neanche il mondo della ricerca riesce sempre ad essere efficace in questo àmbito, e che i veri artefici e garanti della biodiversità rimangono in sostanza i produttori agricoli, con il loro presidio del territorio e la loro azione quotidiana.
Da questo punto di vista, l’agricoltura tradizionale ha rappresentato e continua a rappresentare una grande “fabbrica” di biodiversità, mentre quella industriale, diffusasi nelle grandi pianure, è distruttrice di biodiversità agricola (coltivata), zootecnica (allevata) e spontanea (selvatica).
A trattare questi concetti nel contesto della realtà alpina è stato Fausto Gusmeroli della Fondazione Fojanini di Sondrio, che ha illustrato il ruolo della “verticalità” e presenza nelle Alpi di una grande varietà di influenze ambientali e culturali che hanno dato origine ad una grande biodiversità.
Quando “esportati” in montagna, i modelli basati sulla specializzazione (del latte, come delle mele) e l’imitazione nei territori “alti” dell’agricoltura industriale della pianura, diventano responsabili di un processo di perdita di biodiversità che si accompagna a gravi impatti ambientali, dovuti all’uso di pesticidi e all’eccesso di deiezioni. Il tutto, per di più, senza assicurare oramai neanche la sostenibilità economica delle imprese agricole coinvolte.
Le piccole aziende basate su modelli meno intensivi, la differenziazione produttiva e di servizi, il biologico più autentico, le filiere corte sono invece in grado di rispondere alle domande che provengono dalla società in materia di sostenibilità, biodiversità, prodotti di qualità nel senso integrale, vale a dire organolettica, nutraceutica, etica.
Tra gli altri interventi di rilievo, quelli di Luca Battaglini e di Emanuela Renna dell’Università di Torino, che hanno portato esempi delle numerose razze allevate sulle Alpi e del significato della loro conservazione.
Michele Corti e Giovanni Moranda dell’Università di Milano, invece, hanno messo in evidenza con riferimento al caso concreto della vallata ospitante (Valle Camonica) come sia possibile salvare il patrimonio di agribiodiversità e rilanciare la zootecnia “minore”, ma anche i comparti vitivinicolo e ortifrutticolo, che di fatto erano pressoché scomparsi, determinando il rischio di perdita di numerose varietà locali di viti, mele, patate, rape, etc.
Il nesso tra modelli agricoli e biodiversità è lampante. Resta da chiarire quale sarà il futuro per le piccole aziende.
Chi voglia approfondire queste tematiche (e apprendere delle più rilevanti esperienze svizzere e italo-svizzere) può cliccare qui
testo liberamente tratto da Ruralpini di Michele Corti
21 aprile 2010