Si è fatto un gran parlare in tv – in quest’agosto appena trascorso – di pastorizia sarda “al capolinea”, di manifestazioni di protesta nei pressi degli aeroporti, e persino di una presunta suspence per un corteo dei pastori nei pressi di Villa Certosa. Ma la sostanza che più emerge, è che – paradosso dell’informazione o volontà di non-comunicare – i telegiornali hanno raccontato poco e niente sulle motivazioni che hanno spinto i pastori sardi a esasperare i toni della propria protesta.
Interessate alla vicenda sono le circa 12mila aziende pastorali esitenti, che oramai si trovano a sopravvivere, lavorando per mantenere in piedi attività senza trarne di che mantenere le proprie famiglie, con la residua e sempre più vacillante prospettiva di una ripresa. Realtà che al di là del valore economico complessivo, stimato attorno al milione di euro circa, rappresentano una cultura identitaria che deve essere salvata in quanto parte fondamentale di una cultura più ampia, di una società, di territori che altrimenti cadrebbero in un abbandono definitivo.
Ma si può sapere da dove derivi questa crisi? «Il problema di fondo», confessa Michele Arbau, pastore e giornalista del quotidiano L’Unione Sarda, «è quello dell’assenza di progettualità. Non c’è mai stato un progetto politico-pastorale, ma si è andati avanti a testa bassa, incentivando i pastori a costruire stalle abnormi, ad acquistare mungitrici (che alcuni non hanno mai utilizzato) e, a volte, minicaseifici. Tutte spese elevatissime che hanno messo in crisi i pastori. Perché se da una parte, certo, si sono ammodernati gli ovili, dall’altra non si è garantita un altrettanto cospicua entrata».
«Quindi», continua Arbau, «abbiamo sì grandi e moderni ovili, ma con minori entrate rispetto a prima, perché mentre sono aumentate le spese di gestione, il prezzo del latte è fermo a trent’anni fa. Questo è una delle principali cause dell’indebitamento dei pastori».
L’unica cosa che ha garantito più entrate ai pastori, ma è una mera iperbole, è stato l’incremento del bestiame, triplicato in pochi anni, con una media di capi per azienda che è passata da 150 pecore alle attuali 500. Un valore triplo in quanto a patrimonio animale posseduto, ma anche più lavoro, più spese e «soprattutto», sottolinea il pastore-giornalista, «con i pastori “incastrati” nel ruolo di semplici produttori di latte, e non più in quello di trasformatori».
Una situazione quindi che ha creato un evidente circolo vizioso e la conseguente dipendenza del pastore dall’industria casearia. Il quadretto è tanto duro quanto palese, e mette spalle al muro davanti alle proprie responsabilità una classe politica (odierna e passata) incapace, o peggio colpevole per la situazione venutasi a creare, e che si manifesta in maniera eclatante attraverso tre fattori principali: - i debiti costringono i pastori a preferire pagamenti alla consegna della merce.
Questo consente all’industria casearia di pagare mensilmente e dare caparre (pochi, maledetti ma subito), mentre chi trasforma vende il formaggio a fine annata (maggio, giugno), a volte come quest’anno a settembre e oltre, eppoi per fare il formaggio occorre essere in regola con le norme igienico sanitarie (che implicano costi elevati), e per trasformare il latte (che oggi è molto di più rispetto a prima, avendo più pecore che producono molto di più rispetto al passato) ccorre più manodopera, e il personale oltre a non esserci, costa troppo per le limitate casse dei pastori.
«Le industrie», incalza Arbau, «approfittano di questa situazione, fanno cartello, prescindendo dalla più elementare regola di mercato (fare il prezzo in base a domanda e offerta) e stabiliscono a tavolino il prezzo del latte ovino: quest’anno 65 centesimi (nel 1982 era pagato a 1.200 lire al litro)».
L’obiettivo principale dei pastori è quindi quello di riuscire a costituire delle grandi organizzazioni tra produttori, in modo da:
– avere maggiore forza contrattuale;
– fare in modo che le cooperative facciano squadra e riescano ad avere dei propri autonomi canali commerciali;
– consentire a più pastori di trasformare il latte in ovile e venderlo, con l’ausilio anche delle cooperative, autonomamente, senza l’intermediazione dell’industria privata come avviene oggi.
Questo vale soprattutto per i barbaricini (che sono poi la maggior parte dei pastori sardi) che producono il Fiore Sardo Dop (è uno dei migliori formaggi italiani da latte crudo e da caseificare appena munto, n.d.r.), un formaggio che, se lavorato come da tradizione, può essere prodotto solo in ovile e non dall’industria, che invece – non si sa il “come” ma si sa il perché, lo sta producendo in gran quantità, compromettendone il mercato.
Le difficoltà di chi produce Fiore Sardo sono almeno altre due, entrambe legate al mercato: chi acquista, infatti, non riesce a distinguere il formaggio prodotto in ovile da quello industriale, e poi, la più paradossale, è che mancano canali di vendita accessibili ai pastori, quindi finisce che ogni forma prodotta sia mercanteggiata dall’industria e dagli intermediari, lasciando ai pastori poco più che le briciole.
Da qui e da altro ancora scaturiscono le attuali manifestazioni di protesta dei pastori: i lunghi rotardi nell’erogazione dei “premi” e dei “benefici” destinati alle attività pastorali, dalla misura del piano di sviluppo rurale sul benessere animale al cosiddetto “premio unico”, e altri ancora.
«Le aziende», conclude Arbau, «non possono andare avanti così; sono sull’orlo del precipizio. E il dolore per i pastori è doppio: perché oltre a non riuscire a pagare i debiti, hanno le aziende da preservare: cioè la loro vita, i loro sacrifici, la loro storia. Le manifestazioni nascono su input del movimento dei pastori sardi, guidato dal pastore Felice Floris che già in passato era stato protagonista di analoghe iniziative».
Avviate all’incirca un mese fa con una manifestazione nei pressi dell’aeroporto di Cagliari, sono proseguite con l’occupazione della strada statale 131 (l’arteria principale sarda) all’altezza di Tramatza, e poi fuori dagli aeroporti di Olbia e di Alghero. Iniziative che stanno coinvolgendo sempre più pastori.
Sconsolante infine è notare come alcune organizzazioni di categoria (definizione sempre più eufemistica, oramai) sfruttino situazioni del genere per comunicare attraverso i media una vicinanza tutt’altro che reale agli agricoltori e ai pastori di turno. E clamoroso è il fatto che molti telegiornali abbiano fatto apparire – come è accaduto sabato 21 agosto – una Coldiretti solidale e unita ai pastori, nonostante quell’organizzazione, per i forti dissidi in essere con i lavoratori, avesse manifestato sì il giorno prima in contemporanea a quelli, ma su una diversa piazza.
1 settembre 2010