Quella di Montevecchia, in Brianza, è zona di origini rurali, legata tra l’altro alla produzione degli omonimi furmagitt (formaggini) da latte ovino di pecora di razza Brianzola. Una realtà che dopo anni di oblio si prepara a tornare a nuova vita grazie all’attività e alla determinazione dell’Associazione Pecora Brianzola che, una volta “salvata” la razza, ha avviato un interessante progetto per il recupero della produzione casearia .
Ce lo racconta qui il professor Michele Corti, che ringraziamo per l’interessante articolo e la tempistica con cui ci offre questa anteprima:
Tra un alpeggio e l’altro questa volta ci occupiamo di una realtà collinare, alle estreme propaggini del sistema alpino. Siamo nella Brianza lecchese, nel Parco di Montevecchia e della valle del Curone, costituito da due piccole valli: quella del Curone per l’appunto e quella del torrente Molgoretta detta anche Valle Santa Croce (comune di Missaglia). Una valletta aperta a Sud sull’alta pianura lombarda, ad altitudini comprese tra 300 e 500 metri slm, quel tanto che è stato sufficiente (insieme all’istituzione del Parco) a tenere lontana l’urbanizzazione.
La copertura boschiva è intercalata, nell’ambito di alcune zone del Parco con prati permanenti e vigneti, quasi tutti di impianto recente. Il “quasi” è importante perché la collina di Montevecchia è famosa per aver rappresentato per lungo tempo l’unica superstite realtà viticola della Brianza dopo che la diffusa viticoltura brianzola fu colpita da una grave invasione della filossera da cui non si risollevò più. In precedenza il paesaggio brianzolo era caratterizzato dalla presenza dei “ronchi” (terrazzamenti) intensamente coltivati a vite (nel tempo soppiantata dalla gelsicoltura finalizzata all’allevamento del baco da seta). Oggi nella zona di Montevecchia e dintorni vi sono una cinquantina di ettari con diverse aziende a Montevecchia, Perego e Missaglia, e vi sono produzioni legate all’Igt “Terre Lariane”. Sono aziende che in alcuni casi coniugano l’attività vitivinicola con l’agriturismo, valorizzando la vocazione turistica della zona, una classica mèta di escursioni giornaliere per brianzoli, monzesi, ma anche milanesi in un angolo di territorio lombardo dove si riesce a dimenticare di essere immersi nella “conurbazione” MI-VA-LC.
In questo clima di “rinascita rurale” del territorio si è inserita la pecora Brianzola. Qui, e lo capiremo tra breve, la Brianzola ci sta particolarmente bene e può svolgere una parte no secondaria nel processo di valorizzazione agricola e turistica (e ambientale) del Parco.
La pecora Brianzola: dal faticoso recupero della razza alle nuove prospettive
La pecora Brianzola come tante razze non specializzate ha rischiato l’estinzione. Oggi, però, l’agricoltura torna il larga misura alla despecializzazione e razze con più attitudini produttive possono risultare più competitive. In questo contesto la pecora Brianzola si sta facendo apprezzare non solo per l’agnello pesante ma anche per i salami crudi e per i prosciutti e non mancano tentativi di valorizzazione della lana. (vedi l’articolo: Una pecora multifunzionale: la Brianzola ). L’idea di tornare ad utilizzare la Brianzola per la produzione di latte non è nuova (era già caldeggata dal dottor Formigoni, direttore dell’Ispettorato Agrario di Como sin dagli anni ’40). Da tempo se ne discute all’interno dell’Associazione della pecora Brianzola e chi scrive ha reiteratamente proposto di avviare un progetto sul tema. Quando, una decina di giorni, fa Pasquale Redaelli (il presidente dell’associazione) mi ha comunicato che un giovane allevatore aveva abbracciato l’idea di avviare una prova di produzione di latte con le Brianzole ho accolto con grande piacere la notizia. A maggior ragione perché l’allevamento in questione è situato a Missaglia nel Parco della valle del Curone. A un tiro di schioppo da Montevecchia (si capirà tra poco il perché di questo entusiasmo).
L’azienda che alleva le Brianzole a Missaglia è l’Azienda agricola Cascina Bellesina sita nella sopra citata valle della Molgoretta. In una zona con abbondanza di prati stabili.
La piccola valle presenta i versanti quasi completamente coperti da vegetazione boschiva anche se in passato erano quasi interamente interessati dai “ronchi”, le terrazze vitate. Negli ultimi anni anche qui sono stati reimpiantati alcuni piccoli vigneti. Il paesaggio è molto gradevole in ragione dell’alternanza di fasce boscate e di prati.
L’azienda Cascina Bellesina ha per titolare Marco Frison un giovane di 28 anni. L’azienda si occupa principalmente di arboricoltura (potature, abbattimenti, trattamenti fitosanotari ecc.), di forestazione e ripristino ambientale (recupero castagneti, terreni incolti) e di vendita di legna da ardere. Da dieci anni, però, Marco tiene le Brianzole, una passione degli anni verdi che non accenna a scemare.
Le pecore dispongono di superfici recintate sia nei pressi della cascina che a breve distanza nell’ambito della velletta. L’azienda dispone di quasi 5 ettari di cui la metà di proprietà ed la produzione di fieno è attualmente eccedentaria rispetto al fabbisogno delle pecore (c’è anche un cavallo). I prati migliori sono segati da un’azienda di vacche da latte dei dintorni («sono arrivati prima loro…», dice il giovane pastore) ma comunque Marco è molto soddisfatto delle superfici che ha potuto mettere insieme oltre a quelle di proprietà.
Tra i vari spazi dove sono attualmente stipati i balloni vi è anche la stalletta che dovrebbe essere destinata alle pecore in mungitura.
Il progetto di Marco risulta particolarmente interessante perché sfrutta a pieno le potenzialità di “multifunzionalismo” del piccolo territorio. Le pecore, oltre ad essere impiegate per il recupero di superfici incolte, sono anche state “assunte” come manutentrici del campo pratica golf, che è anche uliveto e le pecore lo tengono ben rasato (tre piccioni con una fava), mentre qualche cicatrice sui fusti indica un po’ di danni da scortecciamento, ma è roba pregressa.
Le pecore utilizzano anche il bosco dove, in autunno, possono trovare abbondanti ghiande e castagne. Ben poco, invece, offrono i tetri rimboschimenti artificiali con le orride conifere esotiche (Pinus excelsa) che hanno occupato i “ronchi”, frutto del “forestalismo scientifico”. Il valore del legname in piedi è negativo; bisogna pagare per far tagliare ed esboscare.
Ma qualcosa anche qui le pecore riescono a trovare, contribuendo per quanto possibile alla “pulizia” di queste formazioni che bosco non sono in quanto nessuna rinnovazione naturale è presente. La parte basse dei fusti è “pulita” dall’edera che è ad essi avvinghiata e che, specie in tardo autunno-inverno, è molto appetita dalle pecore. Il poco di luce che filtra, unita all’azione delle pecore, consente anche lo sviluppo di un po’ di tappeto erbaceo.
Qui sotto, invece, vediamo un terreno liberato dai rovi (Marco ha utilizzato una trincia portata da un escavatore) che è in fase di sistemazione con la posa dei pali che serviranno a reggere le recinzioni.
Le pecore non in lattazione potranno essere mantenute su questi terreni (una volta effettuate le semine) dove esistono anche dei ricoveri rudimentali (del tutto idonei per mantenere “a tetto” le pecore quando serve). L’allevamento delle pecore appare finalizzato a trovare un utilizzo produttivo per le superfici ripristinate.
Montevecchia: vino e… furmagitt (ma quali sono quelli “autentici”)?
Pecora Brianzola come “manutentrice” e coadiuvante del ripristino ambientale, dunque, ma anche al tempo stesso come volano del turismo enogastronomico. Un’azione duplice e preziosa. Dicevamo che da tempo l’Associazione della pecora Brianzola si sta impegnando per la valorizzazione della carne, non solo con l’agnello pesante Brianzolo (presente nel menù dell’agriturismo dell’Azienda agricola vitivinicola La Costa di Perego) ma anche con i prosciutti e i salami crudi. Ma la pecora Brianzola ha un ulteriore asso nella manica: rinnovare la produzione degli “storici” formaggini (robiolini) di Montevecchia.
I furmagitt (o robiolini) di Montevecchia (chissà perché citati sempre al plurale) rappresentano un mito caseario, citati anche in diversi passi letterari. Questi furmagitt rappresentano un interessante “spia” dell’evoluzione della storia casearia (e dei sistemi zootecnici). Un’evoluzione che ci porta indietro… alla nostra pecora Brianzola.
I furmagitt erano tradizionalmente confezionati con latte ovino, poi è seguita l’era del latte vaccino o vaccino + ovino o vaccino + caprino finché, in tempi recenti, si è imposto - almeno quale tipologia più qualificata ed “autentica” (o presunta tale) – il “formaggino di Montevecchia” di puro latte di capra detto anche “Caprino di Montevecchia” (vedi l’Atlante dei Parchi). Tale identificazione ha dei precedenti nell’Atlante dei prodotti tipici: i formaggi, a cura dell’Insor, (Franco Angeli, Milano, 1992) e nell’Atlante dei Formaggi di Giorgio Ottogalli (Hoepli, Milano, 2001) . Le fonti che identificano i furmagitt con i “caprini” le stesse citano anche una “Robiola di Montevecchia”. Quest’ultima viene indicata (citiamo l’Atlante Insor) come “prodotta con latte vaccino o misto ovino” ma viene assimilata a quelle della Valsassina (per via del color salmone della crosta dovuto alla patina batterica che si sviluppa in condizioni di forte umidità). Tale “Robiola” poteva essere di forma “quadrata, rettangolare o circolare” e del peso di 0,3-0,5 kg. Non pare quindi avere molto a che vedere con i “Robilini”.
Un testo più datato: il Nuovo dizionario di merceologia e chimica applicata, Volume 4, di G. Vittorio Villavecchia e G. Eigenmann , Hoepli, Milano, 1974, (p. 1544) riporta tra le tipologie dei formaggi a pasta molle: “i Robiolini di Montevecchia. Si preparano con latte di vacca solo o talora misto a quello di capra o di pecora”. Che tra formaggini e robiolini non ci sia differenza lo conferma la citazione da parte di questi autori di due altre categorie: “i Formaggini di Lombardia, simili ai precedenti, ma preparati con latte di vacca” e i: “Formaggini di Lecco, fabbricati con latte vaccino e di capra”. Se si aggiunge che tra l’area piemontese e lombarda i termini “formaggini”, “tomini”, “robiolini” si sovrappongono largamente e che, a volte è definito “formaggino” (o “formaggino”) un prodotto di forma quadrata e “robiola” (o “robiolina”) uno di forma tonda, ma che altre volte … avviene l’opposto ci rendiamo conto che va dipanata parecchia confusione.
Meglio quindi fare un passo indietro nel tempo e risalire alla seconda metà del XIX secolo. L’Inchiesta agraria Jacini, come spesso accade, ci fornisce utili indicazioni. Fortunatamente la “relazione sul Circondario di Lecco” redatta dal Cav. Ing. G. Brini, è ricca di dettagli sugli aspetti zootecnici e caseari delle nostre colline. Vediamo cosa dice:
“Il latte delle pecore, il cui prodotto si calcola in ragione di ettolitri 2,50 annui cadauna, mentre non si mungono che durante quattro mesi all’anno, con una media giornaliera di litri 2,25, è ricco di materia caseosa e prestasi alla fabbricazione di speciali latticini che foggiansi a guisa di piccoli cilindri detti formaggini, che sono molto pregiati in commercio. Di pari merito [rispetto a quello di pecora quindi], è iI latte, caprino che, segnatamente nella Valsassina, impiegasi come il pecorino a fabbricar formaggini nel modo seguente: Nel latte appena munto si mesce il necessario presame preparato coi ventricoli di capretti o di vitelli macerati nell’aceto, e se ne attende la cagliata, che si rompe e si frammischia finché sia ben segregata dal siero. Allora si ripone in formelle di legno, ove si lascia a sgocciolare fino a che abbia, raggiunto una certa consistenza. Quindi i formaggini si salano generosamente e se voglionsi ottenere di sapore forte, vi si aggiunga anche una piccola dose di pepe”. Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Atti, Vol. VI, Roma, Forzani, 1883. Il Circondario di Lecco, Vol VI, Tomo I, Fasc. II, p. 335.
Pecore in collina, capre in montagna
Da queste osservazioni emerge che: vi era una tipologia unica di formaggini che potevano essere ottenuti con il latte di capra o con quello di pecora. La tecnica era quella della cagliata presamica. In montagna si usava latte di capra, in collina quello di pecora. In montagna la capra era stata tollerata dalle autorità perché erano disponibili pascoli magri, sassosi, con arbusti spinosi dove solo le capre, spesso riunite in greggi “comunali” guidati da un pastore, potevano trovare nutrimento (e dove non potevano provocare danni forestali). In collina, invece, la presenza dei vigneti e di altre coltivazioni aveva da secoli determinato il bando delle capre e i contadini avevano dovuto adattarsi ad allevare soltanto la pecora. Del resto quest’ultima forniva qualcosa di molto prezioso: la lana. Molto prezioso era anche il concime. In poche parole la pecora era una specie animale che si adattava alla perfezione in un ambiente di “coltura mista” su piccola scala massimizzando una vocazione multifunzionale.
Chi fosse interessato ad approfondire sul progetto e sulle modalità della sua realizzazione, e a visionare altre foto relative al ritorno dei formaggi il Brianza, può consultare la versione estesa dell’articolo, sul sito del professor Michele Corti, cliccando qui
9 settembre 2010
riduzione e adattamento da: http://www.ruralpini.it/Inforegioni05.09.10.htm
per altre informazioni:
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