Sui ripiani della casera, al tempio del Bitto storico, su a Gerola Alta, spuntano i cartellini con le facce e i nomi dei produttori. Dietro questo apparente piccolo fatto si configura un grande significato, che concretizza in forma esemplare l’espressione del “principio contadino” teorizzato da J.D. Van der Ploeg, il ruralista olandese che vede nei contadini del terzo millennio la vera forza in grado di contrastare la globalizzazione e il dominio dell’Impero globale agroalimentare . La visibilità delle persone-produttori e l’identità dei luoghi e dei metodi produttivi rurali più autentici si contrappongono e contrastano la globalizzazione e il dominio dell’agroindustria, che punta a trasformare i luoghi di produzione e i produttori in “non luoghi” e “non persone”.
Quello di Van der Ploeg è un riferimento obbligato per il neoruralismo, quello che vede i contadini del terzo millennio come nuovo soggetto sociale e politico, in grado di contrastare il “global food system”, non certo quello della “casa in campagna” e del consumismo “verde” o quello schernito dai soliti intellettuali spocchiosi e provincialotti come “revival folklorico”.
Le teorie del sociologo rurale olandese (probabilmente il più autorevole sulla scena europea) erano ben note tra gli addetti ai lavori ma hanno trovato diffusione presso un pubblico più vasto solo attraverso l’opera “I nuovi contadini. Le campagne e le risposte alla globalizzazione” (Donzelli, Roma, novembre 2009). Il volume è tutto di grande interesse, anche se consiglio in particolare i capitoli: I, II, V, VI e l’ultimo (X), “Il principio contadino”, alla cui lettura dovrebbe essere preceduta quella di almeno alcuni dei capitoli precedenti.
Prima di illustrare come il caso del Bitto esprima in modo paradigmatico la “nuova resistenza contadina” occorre solo sottolineare come il teorico ruralista olandese consideri la nuova realtà contadina del terzo millennio come qualcosa che si ricollega sì all’esperienza contadina del passato, ma anche del tutto nuova. Il “ritorno dei contadini” e la “ricontadinizzazione” sono una risposta in termini di lotta, resistenza e reazione a quello che Van der Ploeg definisce “l’Impero”, un sistema di connessioni globali che tende ad assumere un controllo pervasivo mai visto in precedenza sulle risorse: accesso ai mercati, acqua, risorse genetiche, terra. A questo sistema i contadini reagiscono in modo flessibile, non tanto con forme eclatanti di lotta politica e sociale quanto in una serie di pratiche quotidiane, apparentemente “inoffensive” ma in realtà “sovversive”.
“La resistenza si incontra in un’ampia varietà di pratiche eterogenee e sempre più interconnesse attraverso le quali i contadini si definiscono come distintamente differenti: è nei campi, nei modi in cui si fa un «buon letame», si allevano «vacche nobili», si costruiscono «belle aziende». Sebbene tali pratiche possano sembrare antiche e irrilevanti se considerate in maniera isolata, nel contesto dell’Impero esse rappresentano i veicoli di espressione e organizzazione della resistenza contadina”.
Gli aspetti del “caso Bitto storico” che coincidono con l’illustrazione del “principio contadino” e la “resistenza” di Van der Ploeg sono molti, a partire dalla contrapposizione tra grande qualità e “mediocrità” (del prodotto). In questa sede, però, vogliamo sottolineare qualcosa che anche un visitatore superficiale può constatare immediatamente quando si reca del santuario del Bitto: la casera di stagionatura dove sono conservate migliaia di forme di Bitto storico a Gerola Alta (Centro del Bitto). Parliamo di un aspetto cruciale del confronto tra principio contadino e principio agriglobale, quello che contrappone l’identificazione precisa dei luoghi di origine dei prodotti e la visibilità di produttori; persone all’anonimato dei non-luoghi e dei produttori “invisibili”.
“L’Impero tende a creare invisibilità poiché la produzione si sposta in “non luoghi” e di conseguenza l’origine dei prodotti alimentari è nascosta dietro la facciata di prodotti simili mentre i produttori di beni primari diventano anonimi e intercambiabili. Tendono cioè a essere convertiti in “non-persone” le cui identità e capacità non contano”.
Conta il “disciplinare di produzione” aggiungiamo noi, il “marchio”. Ma così quelli che dovevano essere strumenti di “tracciabilità”, “identificazione” etc. diventano ulteriori mezzi per introdurre “intercambiabilità” e per consentire a chi ha in mano le “connessioni” (fasi chiave della filiera, commercializzazione) di imporre ai prodotti nuove identità in relazione alle esigenze dell’industria o della Gdo.
Invece nel Bitto storico conta la personalizzazione. Il produttore è visibile. Le forme in stagionatura recano tutte il nome dell’alpeggio, e in testa alle scalere dov’è conservata la produzione del singolo alpeggio vi è un cartello con la foto del casaro e il suo nome (vedi immagini in alto). Come dimostrano le foto qui pubblicate, che ritraggono alcuni dei casari del Bitto storico, protagonisti di una “resistenza” che può a buon ragione essere citata come un esempio di valore europeo.