È un’iniziativa, quella della resistenza casearia a favore del Bitto storico, che ci tocca profondamente e che apprezziamo e condividiamo, seguendo e sostenendo da anni con il nostro lavoro le vicende della straordinaria realtà delle Valli del Bitto. Ancora una volta chapeau a Slow Food, quindi, per l’ennesima e concreta attività a favore di uno dei prodotti più autentici del nostro panorama caseario
.
A guardare bene in questa vicenda, però, c’è un dettaglio che stona, e che merita di essere trattato e superato per procedere veloci nel racconto. È il proverbiale sassolino nella scarpa, ed è bene che io personalmente, in qualità di editore e direttore di questo settimanale, me lo tolga, qui, con i nostri pochi ma affezionati lettori che son fiero di avere (come si dice, cari miei, davvero meglio pochi ma buoni!).
Ma veniamo al dunque.
Le sentite, sì, come suonano bene nella bocca e nella testa, quelle due parole là?:
Re – si – sten – za Ca – se – a – ria
Sentite?
Quasi si scandiscono da sé…
Poi, senza che ve ne accorgiate, finisce che vi entrano persino in testa, e che ci rimangono.
Bene, quelle due parole, o meglio quella definizione, oggi ha sette anni, quattro mesi e dieci giorni di età. Lo sappiamo bene, qui da noi, perché qui nacque, e non certo a Bra. In questa redazione vide la luce, assieme al bimestrale “Cheese Time” (antesignano di QualeFormaggio), di cui fu rubrica, per poi passare al web da che questo sito esiste. E Resistenza Casearia, manco a farlo apposta, è la rubrica più visitata di questo sito (54%). Ci sarà un perché, anzi più di uno, e questi perché si chiamano lavoro, sacrificio, passione e cuore. E scusate se è poco.
Frenino ora i saputelli pronti a dire “la potevi registrare”. Risparmino il fiato. La questione che più mi tocca, e che oggi porto a ciascuno di voi – e di bocca in bocca a quanti più la faranno circolare – è che qualcuno qui ha preso qualcosa. Senza chiedere.
E non è che non ci si conosca. Potrei fare nomi ai livelli più alti (chi sa sa, e questo è l’importante) di questi “amici di qualche ingenuità”, come li definì bene il buon Gino Veronelli in qualche scritto privato sulla fine del Castelmagno, ma almeno quelli ve li risparmio. Il punto è un altro: la domanda che non ha risposta è: “che ci voleva a chiedere?” Paura di condividere iniziative comuni (ma no, ma no: non è nel loro “stile”, loro che a malapena lasciano trapelare la “firma” dell’Accademia dei Georgofili nelle iniziative sulla biodiversità…)? Ridicolo. E indecente.
“E allora perché questo sfogo, Mariotti?”, mi chiederà adesso il talebano dalla chiocciolina d’oro. Semplicemente perché poi il tempo passa, signori. La gente dimentica. E l’ultimo affronto che vogliam subire è di venir scambiati, nel tempo – noi borseggiati – per borseggiatori.
Detto questo, veniamo finalmente agli amici del Bitto storico (di cui scrivevo larghe e profonde cronache – poi rilanciate da illustri colleghi come Licia Granello e Paolo Marchi – ancor prima che il Presìdio nascesse, ndr). Il racconto è di Michele Corti, da ruralpini.it, che ringrazio di cuore:
Il Bitto storico resiste, sì, ma in questa sua strenua resistenza ha bisogno di un forte e incondizionato sostegno: morale e materiale. Le hanno provate tutte per piegare la resistenza dei “sovversivi del Bitto” all’ortodossia del gusto. L’ortodossia è quella che dice che vuol far credere che le Dop significano eccellenza e tipicità mentre sono solo l’espressione del livellamento, della mediocrità, dell’adeguamento di tecniche e pratiche particolari, puntigliose, orgogliose alla banalità di metodi standardizzati, semplificati, facilitati, accelerati.
Il Bitto storico si faceva (i “ribelli” lo fanno tutt’ora così) lavorando il latte sul pascolo a poche decine di metri da dove si munge. A caldo, facendo passare meno di mezz’ora tra mungitura e inizio della lavorazione(aggiunta del caglio). Per fare il Bitto ci volevano quattro ore (e i “ribelli” fanno ancora così), oggi per il Bitto “modernizzato” dop bastano due ore e mezza, Per fare il Bitto si aggiungeva latte di capra (e i “ribelli” fanno ancora così). Per fare il Bitto non si usavano né mangimi per “aiutare” le mucche, né fermenti lattici “selezionati”, ma si valorizzava la microflora “spontanea” presente nel latte.
Il Bitto si faceva solo in alcune valli. Oggi quello Dop si fa in tutta la provincia di Sondrio anche dove non vi era alcuna tradizione di lavorazione del formaggio a latte intero ma si facevano solo formaggio magro e formaggette. Si decise così a tavolino “per avere i numeri”.
E poi che accade? Che la mediocrità ha paura d’essere messa a confronto con l’“originale”. E così i produttori “storici”, scomodi testimoni di quello che era il Bitto autentico, sono stati combattuti in modo feroce. Per staccarli dall’Associazione Produttori Valli del Bitto (oggi trasformata nel Consorzio per la salvaguardia del Bitto storico) le hanno provate tutte. Compresi i ricatti e i voltafaccia degli amministratori locali. Comprese le ispezioni dei funzionari del Ministero dell’agricoltura che hanno contestato le infrazioni alle norme di tutela della Dop. E comminate le relative sanzioni (3.000 € pagati + 5.000 € di avvocati per difendersi).
Chi è rimasto fedele al modo di lavorazione tradizionale del Bitto e che lo produce nella zona dove si è prodotto da secoli si è visto multare per “lesa Dop”, ovvero per aver usato abusivamente il nome “Bitto” (non ne avevano più titolo, essendo usciti dal consorzio, ndr). I depositari di una tradizione che ha creato il mito del Bitto e resa celebre la denominazione si sono visti accusare di usarla abusivamente. E questo perché, per sacrosanta protesta sono usciti da un Consorzio di tutela (tutela di cosa?) che ha voluto inserire mangimi e fermenti selezionati nel disciplinare di produzione.
Ma la resistenza del Bitto non è solo contro la burocrazia, le lobby industriali camuffate da agricole. È anche una resistenza contro meccanismi di mercato che non riconoscono il valore di un formaggio che viene prodotto con un sistema di pascolo che si rifà a tecniche di uso saggio e rispettoso delle risorse naturali, che viene ottenuto con metodi lenti e attenti, che viene curato amorevolmente per anni nella casera di stagionatura.
Ai produttori del Bitto viene corrisposto un prezzo di 16 € al kg per il prodotto fresco. La manodopera di chi cura il formaggio in stagionatura, il calo-peso, gli scarti, i costi dell’affitto e della gestione dei locali portano poi a un prezzo di 30, 40, 50, 60, 70€ e più in funzione dell’invecchiamento (fino e a volte oltre i dieci anni). Sono prezzi elevati ma etici, perché coprono il lavoro di procedimenti del tutto manuali e la rigorosissima selezione qualitativa. Diffondendo questa cultura del formaggio di elevato pregio – formaggio “da degustazione” e “da meditazione” – il Bitto apre la strada alla valorizzazione di tanti altri capolavori che, in assenza di un adeguato riconoscimento di prezzo, devono arrendersi e lasciare il passo a banali imitazioni che possono essere vendute a prezzi “normali”. Forse vale la pena di aggiungere che il “braccio commerciale” del Consorzio, la Società Bitto Trading che ne cura la commercializzazione (con lo stesso presidente del Consorzio e partecipata dal Consorzio stesso) è ben lontana dal fare utili (anche se sta riducendo le perdite e punta ad un equilibrio economico sostenibile).
È ora di aiutare la causa. Ora.
Con la sua visibilità, il Bitto Storico sostiene la causa più generale degli alpeggi, dei formaggi d’alpeggio e dei pastori. È una causa “esemplare”, che serve a tenere aperta la questione delle Dop, rivelatesi un boomerang per i prodotti artigianali d’eccellenza e per i piccoli allevatori. Per questo tanti “gastronomi etici”, e Slow Food, sostengono il Bitto. Ora Slow Food, dopo il successo della campagna a sostegno dei pecorini artigianali dei pastori sardi, lancia la campagna di ”Resistenza casearia” a favore del Bitto storico.
L’iniziativa prevede la presenza del Bitto storico ai Mercati della Terra e a tanti altri “eventi slow” ma soprattutto l’organizzazione di un gruppo d’acquisto. Tutti possono parteciparvi. Basta ordinare la confezione di 3 kg di Bitto storico. Il pacco viene spedito a domicilio e comprende: 1 kg di Bitto storico 2010, a € 30/kg; 1 kg del 2009, a 37 €, e 1 kg del 2008 a 44 €/kg. Chi aderirà avrà l’opportunità di organizzare straordinarie “verticali” di tre annate: tre chili di un formaggio che “sazia” come nessun altro al mondo “rendono” infinitamente più di quanto si possa prevedere. Il costo totale del pacco, comprensivo dei costi di confezionamento e gestione ordini è di 115 € (+ 9 € per la spedizione). Acquistando più pacchi il costo della spedizione incide meno (11 € fino a 30 kg). Prossimamente, pare, sarà possibile effettuare l’ordinazione pagando online dal sito di Slow Food. Le prime spedizioni partiranno a fine gennaio, mentre la campagna terminerà a settembre a Bra in occasione della manifestazione “Cheese”.
Un modo ancora più efficace di sostenere il Bitto storico – e di conoscerlo di persona – è quello di recarsi al Centro del Bitto a Gerola Alta, in provincia di Sondrio (100 km da Milano). Il loro sito: www.formaggiobitto.com
Buon Bitto storico a tutti, ora! Che è quel che più conta.
22 gennaio 2011