Sagra del Bitto: la politica risponde all’appello

20 settembre 2008 – La politica risponde con la dovuta attenzione all’annosa questione del Bitto. Al convegno che ieri ha inaugurato informalmente la Sagra del Bitto 2008 era presente Giulio De Capitani presidente del Consiglio Regionale Lombardo accompagnato dai consiglieri regionali Edgardo Arosio e Giovanni Bordoni. Il merito di tutto ciò va dato a Ettore Albertoni, ex presidente del Consiglio Regionale Lombardo ed ex assessore regionale (per sei anni) alle “Culture, Identità e Autonomie”, che ha risposto con il dovuto entusiasmo all’appello a favore del Bitto storico.

Albertoni, da amico della montagna e da federalista attento all’importanza delle comunità alpine e delle loro vitalità culturale e sociale è stato il mattatore della serata che si poneva l’interrogativo: “Le Dop tutelano ancora le piccole produzioni storiche?”. In realtà la più che decennale e nota esperienza del Bitto, ma anche quelle di tante altre Dop dimostrano che molto spesso le produzioni più legate al territorio di origine (alla montagna, ai pascoli) sono state danneggiate dalla dilatazione dell’area di produzione delle Dop e dall’allentamento dei disciplinari in nome del raggiungimento di più elevati volumi di prodotto.

Lo sviluppo economico per i territori di montagna più svantaggiati è stato aleatorio o del tutto assente, ma la qualità, e il consumatore, ne hanno sofferto grandemente. Oltre che di Bitto si è parlato di Macagn, di Strachitunt, di Branzi. La conclusione è stata la stessa e sconfortante: le istituzioni hanno sino ad oggi sposato la causa di chi voleva produrre i formaggi di montagna in pianura, quelli degli alpeggi in fondovalle e, nei casi di produzioni rimaste ancorate all’alpeggio (come ne caso del Bitto), di chi ha portato mangimi e fermenti industriali persino sui pascoli più alti e incontaminati.

Nel corso dell’incontro i produttori storici del Bitto hanno ancora una volta affermato a chiare lettere che non è nelle loro mire la revoca della Dop a chi produce nel resto della provincia di Sondrio secondo metodi oramai poco tradizionali. Il loro obiettivo è quello di porre fine a una situazione paradossale, in cui proprio loro (rifiutando l’uso di mangimi e fermenti industriali sono i depositari della vera tradizione) si ritrovano a non poter chiamare Bitto il proprio formaggio, pur producendolo senza artifici nell’area in cui, secoli fa, nacque e in cui nel tempo si è perfezionato per giungere sino a noi, stimato in tutto il mondo più di quanto lo sia a casa nostra.

E poi? I produttori storici del Bitto chiedono quindi che si trovi il sistema per distinguere ufficialmente le due metodologie produttive (quella tradizionale con il latte di capra, senza fermenti e senza mangimi e quella “moderna”). Una pretesa oggettivamente comprensibile, che non ci pare sia chiedere la luna, quindi.

Che si sia finalmente ad una svolta? Chissà. Di nuovo c’è da registrare che i politici finalmente presenti si sono impegnati a portare la questioni anche in sede di governo regionale investendo l’Assessore all’Agricoltura Luca Ferrazzi. I margini per la definizione della questione – una volta che la Regione Lombardia dovesse confermare una volontà politica chiara in proposito – ci sono. In caso contrario al Salone del Gusto, quando il Bitto delle Valli del Bitto sarà “insignito” del marchio della chiocciola di Slow Food (in quanto prodotto-simbolo e alfiere della biodiversità), l’Associazione Produttori Valli del Bitto dovrà annunciare l’avvio dell’azione di ricorso presso la Commissione Europea in materia di definizione non conforme dell’area di produzione del Bitto Dop.

di Michele Corti
docente di Sistemi Zootecnici all’Università degli Studi di Milano