Certe vicende possono accadere solo grazie alla forza e ai valori che determinati simboli hanno in sé, di mettere in moto straordinarie e insospettabili energie. Il simbolo catalizza, ma nulla può se non c’è materia utile da far intereagire: una materia umana fatta di personalità piene di entusiasmo, di volontà incrollabili, capaci di guardare lontano, ma con i piedi saldamente a terra, com’è con gente che vive in montagna e di montagna.
La storia di oggi ha diversi e straordinari protagonisti, umani e non, a partire dal contesto in cui la vicenda si compie; al tempo stesso sfondo, simbolo e fattore di connessione del tutto: le Alpi Orobie. Il secondo è il Bitto storico, autentico figlio delle Orobie, che oggi ricambia la matrice che lo ha generato, conferendole la giusta e meritata rinomanza.
Il trapianto “altrove” del Bitto: un boomerang
Chi si è illuso di trapiantare altrove e impunemente questo formaggio – che oggi è il più pagato al mondo – ha fatto emergere in modo ancor più netto, consapevole e militante la sua “orobicità” (in polemica col “nuovo Bitto”, consacrato dalla burocrazia del gusto – il Dop – prodotto dallo Spluga sin su a Livigno). Ed è stata proprio l’orobicità del Bitto storico ad aver innescato processi tanto imprevedibili quanto deflagranti. Ha saldato al di là della cresta, e quindi del confine tra le provincie di Sondrio e di Bergamo, non solo chi produce Bitto storico ma anche i formaggi che ne condividono una comune origine e altri che si riconoscono in una comune grande tradizione casearia. Le Orobie sono tornate a sentire, a capire, a sapere e ad affermare, finalmente, di essere un comprensorio caseario unico al mondo.
Protagonisti
Nulla di ciò si sarebbe realizzato però se non ci fossero stati dei protagonisti umani oltre a quelli orografici e caseari (cui si potrebbero aggiungere la capra orobica e tutta la schiera di personaggi-simbolo del Bitto storico, compresi tra mito e storia). Parliamo dei protagonisti attuali, persone che hanno antenne decisamente più sensibili della tanta gente (quasi tutti) che si rassegna al conformismo, antenne che hanno consentito loro di cogliere il senso, la grandezza, la bellezza, le potenzialità del nesso Orobie-Formaggi-Storia.
Paolo Ciapparelli, il guerriero del Bitto (per il versante abduano-valtellinese), presidente del Consorzio per la salvaguardia del Bitto storico, e Ferdy Quarteroni (per il versante brembano, nella foto di apertura), titolare dell’omonimo Agriturismo Ferdy e attivo “animatore” valligiano. Sono loro che hanno attivato la reazione, che hanno spinto per riprendere i rapporti tra i due versanti.
Istituzioni in retroguardia
Paolo e Ferdy sono avanti anni luce rispetto alle istituzioni impantanate in sabbie mobili burocratiche vecchie e nuove, ancora incasellate in una rigida maglia di istituzioni territoriali preda di una vorticosa e ininterminabile crisi d’identità. Paolo e Ferdy che hanno capito l’importanza dei concetti di “logica di massiccio” e “multifunzionalità” quando si potevano leggere solo in riviste specialistiche, molto prima dei burocrati e dei politici.
Ferdy e il suo cappellaccio, che s’è tolto solo a tavola, e Paolo, il guerriero del Bitto, che in certi uffici e in certe “stanze dei bottoni” è visto con la stessa simpatia nutrita dai mandarini cinesi per il Gengis Khan e i suoi mongoli. Ferdy con l’asino e il secchiello di legno trafitto dal coltello: nulla è per caso in questa storia…
Una spedizione casearia
Se è vero che in ogni storia degna di questo nome c’è un eroe altrettanto degno di questa definizione, il nostro sta materializzando le relazioni casearie trans-orobiche in modo assolutamente efficace. Lo fa ripercorrendo con amici contagiati dal suo entusiasmo i sentieri dei formaggi che valicavano il crinale orobico portando a dorso d’uomo, d’asino o di mulo i prodotti caseari degli alpeggi ai centri di commercializzazione a valle. La spedizione guidata martedì scorso, 11 ottobre, da Ferdy aveva lo scopo di trasportare al Centro del Bitto storico una forma di formaggi orobici per riportare indietro alcune forme di Bitto storico.
Partita da Ornica, in Alta Val Brembana, la piccola carovana è risalita lungo la valle di Salmurano, sino a raggiungere l’omonimo passo (a 2020 mt slm) che la collega con la Valgerola, per poi ridiscendere sino ai 1.850 mt delle baite dell’Alpe Pescegallo Lago. Di qui a Gerola Alta, sede del Centro del Bitto storico, il percorso è stato effettuato in pick-up. Al passo, ad aspettare la spedizione bergamasca, c’era Paolo Ciapparelli che ha accompagnato i partecipanti a Gerola Alta con il proprio fuoristrada.
I membri della spedizione erano: il figlio di Ferdy (un ragazzo che studia lettere ma è intenzionato a fare l’alpeggiatore), Ezio Gritti patron dell’Osteria di Via Solata a Bergamo Alta (una stella Michelin), Fabio Berti giovane chef-patron del Ristorante La Baracca di Camerata Cornello, Graziana Regazzoni (elemento di punta dell’agguerrito gruppo “Donne di montagna” che gestisce l’Albergo Diffuso di Ornica, con annesso punto vendita dei formaggi orobici), Marco Fustinoni, titolare dell’agriturismo Prati Parini di Sedrina. Non si sono lasciati scappare la ghiotta occasione alcuni fotografi orobici free-lance che si sono aggregati alla comitiva.
Tra di loro, Matteo Zanga, fotografo autore di queste belle foto, che assieme ad altre sue immagini racconteranno presto questa storia ai lettori della patinata rivista “Orobie”. Grazie a Matteo e alla sua gentile disponibilità, questa straordinaria storia ha potuto essere illustrata qui come ben meritava. Nel ringraziarlo anche a nome dei nostri lettori, qui e sul mio blog Ruralpini, tengo a sottolineare come la storia di questo straordinario formaggio sia fatta di tanti atti di generosità, piccoli e grandi, come questo: persone che hanno messo gratuitamente a disposizione il loro tempo, i loro talenti, i loro soldi per una vicenda di grande spessore umano, storico e culturale. E per qualche piccolo e grande ideale comune. Valori e risorse contro cui i centri del potere locale (imprenditoriale, burocratico, politico, che speravano di liquidare i “ribelli del Bitto”) non hanno saputo e non sapranno mai fare i conti, anche perché, avvezzi alle sole ragioni del proprio tornaconto, non potranno mai afferrare cosa muova altra gente a sostenere una causa come questa.
Oltre alle belle foto di Matteo (non queste due qui “di cantina”, fatte da me), la giornata di martedì ha riservato un altro “regalo” che consentirà a molta più gente rispetto a chi legge Qualeformaggio, Ruralpini e Orobie, di venire a conoscenza di questa storia di “ristoratori-sherpa” per amore del Bitto storico. Ad aspettare al varco (al passo di Salmurano) la comitiva bergamasca, oltre a Ciapparelli c’era una troupe del Tgr (Tg Regione della Rai) con la giornalista Claudia Apostolo della redazione di AmbienteItalia, una rubrica del Tgr che va in onda il sabato dalle 12:55 alle 14:00.
Un servizio sui “ribelli del Bitto” innescato dal trionfo che il Bitto storico ha ottenuto al Cheese di Bra, e dall’uscita del volume “I ribelli del Bitto”, edito da Slow Food e di cui sono fiero di essere l’autore. Saputo della carovana dei bergamaschi che sarebbe arrivata a piedi su queste splendide vie d’alta montagna per rifornirsi di Bitto storico, la redazione di AmbienteItalia ha deciso di dare spazio a questo straordinario evento.
Una volta arrivati nel Santuario del Bitto, mèta della spedizione (dopo una buona colazione all’Antica Trattoria Pizzo dei Tre Signori, a base di pizzoccheri e Bitto storico “novello”), sono stai compiuti i rituali di autenticazione delle forme destinate a valicare le Orobie. Le foto qui, fatte da me, alla buona (per una volta ero senza la mia fida reflex) ritraggono Paolo Ciapparelli che autografa le forme, in una prassi di “autenticazione” introdotta a partire dal recente Cheese, dopo aver constatato che il Bitto storico, sempre più celebrato, deve divenire facilmente distinguibile, e inimitabile. E così è stato che Paolo s’è inventato esperto calligrafo per vergare a mano le forme una per una, per come d’ora in avanti esse usciranno dal “santuario del Bitto” al fine della necessaria e naturale stagionatura: con il nome del casaro e dell’alpeggio, l’annata, e la firma del “guerriero”, a suggello e garanzia del'”opera” ceduta.
Dopo le operazioni nel “caveau”, le autenticazioni, le fotografie a non finire e le interviste, la risalita al piano superiore, dov’è il locale vendita e degustazioni, e dove gli amici bergamaschi han caricato finalmente le loro gerle, insaccando una ad una le forme in strati di fieno profumato (operazione dal sapore antico, anche se una volta il carico per persona doveva essere non di una ma di quattro e più forme a persona). Riaccompagnati da Paolo alle baite alte di Pescegallo Lago, i nostri si rimettono in cammino sulla strada di casa, mentre il sole si abbassa, per scomparire presto oltre la cresta orobica.
Riflessioni sulla via del ritorno
Il tempo della marcia serale aiuta a riflettere sulle fatiche dei vecchi e sul significato di una giornata che resterà per tutti scolpita nella memoria. Coprire a piedi il breve percorso tra Ornica e Gerola Alta (in linea d’aria 6 km) rinunciando a percorrere in auto il lungo tragitto (70 km) che costringe a valicare il Passo di San Marco e a scendere a Morbegno per risalire poi a Gerola, riveste un significato grande e non preventivato. Per questi montanari, l’alto atto celebrativo ma non solo simbolico della giornata permette la riappropriazione della “madre montagna”, dei suoi percorsi, delle sue connessioni e della sua storia. E porta alla consapevolezza piena di quanto le infrastrutture viarie, pensate in città e in pianura, possano apparire – ed essere – superflue. Quel nastro d’asfalto che pare ponte tra le terre alte e il piano, accresce nella realtà la dipendenza della montagna dai centri pedemontani, spezzando le relazioni intervalligiane e frammentando economia e cultura di montagna in una diaspora di periferie isolate.
Sono certo, al fine, che i nostri amici – gente che ha a che fare in via diretta o indiretta con l’elaborazione e la cultura del cibo – abbiano riflettuto durante il cammino su questi e altri aspetti più intimamente collegati alla loro esperienza quotidiana. L’immagine del giovane cuoco Fabio Berti (qui sopra), qui assorto nel cammino, sotto il peso del Bitto storico portato in spalla, è carica di vecchi significati che si rinnovano: andare con le proprie gambe a procurarsi il cibo dove esso nasce, cibo che verrà utilizzato in cucina e “somministrato” alla propria “clientela” con le proprie mani, dopo aver conosciuto facce, stretto mani, incontrato teste, cuori, passioni, valori, storie che quel cibo hanno prodotto, ha un grande significato sociale e culturale, e conferisce un senso nuovo, anche se antico, al proprio lavoro.
Si ringrazia il fotografo Matteo Zanga per le foto fornite
14 ottobre 2011