Al termine di una mattanza estiva senza pari, registrata quest’anno negli alpeggi, in Appennino e in non pochi pascoli un po’ ovunque nel nostro “bel” Paese, anche l’autunno ci offre, complice un clima mite e qualche ultima uscita delle greggi, la cruda cronaca del terrore perpetrato dai predatori selvatici – in specie il lupo – ai danni dell’economia pastorale.
L’ultimo fatto di cronaca, registrato nell’entroterra imperiese ha avuto come ulteriore aggravante un comportamento insolitamente sfrontato del lupo che, non sentendosi contrastato dal suo storico antagonista, l’uomo (disarmato da leggi inadeguate, che proteggono sì i selvatici e per nulla gli armenti) si è fatto talmente audace da insidiare stalle, case e ora i pastori.
Due esemplari di un piccolo branco hanno infatti portato scompiglio nei giorni scorsi arrivando a terrorizzare un allevatore, Agostino Raviolo, che alle pendici del Monte Frontè con le sue capre e le sue mucche, è stato avvicinato dai predatori che minacciosi gli si sono fatti sotto in pieno giorno. L’allevatore, che nei mesi scorsi ha contato decine di vittime tra i suoi capi, tra cui due vitelli, è riuscito a vincere il naturale panico, ed ha avuto la meglio riuscendo a mettere in fuga le due bestie urlando, brandendo un bastone e lanciando loro pietre.
Come è accaduto in varie altre vallate, in specie in Piemonte, i lupi stanno ormai assumendo un atteggiamento spavaldo che non gli si riconosceva sino all’anno scorso, ormai avvezzi ad avvicinare stalle e case, persino nei borghi abitati e non solo nelle aree più rurali ed isolate.
Il problema purtroppo rischia di rimanere irrisolto, in quanto le vigenti normative comunitarie sulla protezione dei predatori selvatici prevedono l’adozione di misure esclusivamente passive, oltre le quali nessuna disposizione di caccia selettiva, per quanto auspicabili, è in previsione di essere attuata per regolare il sovrannumero di tale specie animale. I risarcimenti danni (per le sole vittime ritrovate e non per i capi dispersi e danneggiati da aborti e riduzione della lattazione) e i fondi disponibili (assai scarsi) per palliativi (reti elettrificate, non utilizzabili laddove l’orografia è più aspra) risultano risibili di fronte all’entità del danno per una diffusa comunità pastorale già messa in ginocchio dalla scarsa considerazione che politica e amministrazioni pubbliche hanno per il problema.
Mentre il mondo agropastorale è in forte sofferenza, gli animalisti a “senso unico”, vera e propria lobby che protegge poche specie non da reddito si erge a difesa dell’indifendibile, forte del diffuso supporto urbano e benpensante che vive nella becera equazione secondo cui la leonessa sta al lupo come la gazzella alla pecora. Carnefici e vittime i cui ruoli sono stati radicati negli anni in una coscienza pressoché comune, frutto della demagogia salottiera allevata in decenni di indottrinamento mediatico ed associativo militante.
Piccola differenza: la gazzella è un selvatico mentre sulla pecora si basa una fragile economia rurale e montana che andrebbe sostenuta. Chi la mantiene in vita la montagna che si spopola? Cosa ci restituisce l’abbandono delle terre alte? Andate a chiederlo, oltre alle famiglie di pastori e malghesi, anche agli abitanti della Val di Vara.
In mancanza di una legge sulla caccia selettiva dei predatori finisce che i pastori si attrezzano da sé (e come non capirli?) e fanno stragi di lupi in maniera indiscriminata con la pratica del bracconaggio. E allora, tra i tanti mali in gioco, ben venga una caccia di tipo selettivo, con buona pace degli animalisti di città, che tutelano sì i lupi e gli orsi ma a cui nulla interessa né degli animali da reddito né, adesso, dell’uomo! Dobbiamo davvero aspettare il morto per vedere che la politica muova un dito?
4 novembre 2011