di Rosario Petriglieri, dottore in agraria
Detta così, sembrerebbe un invito a stare sporchi, a non lavarsi, come se davvero l’igiene fosse nociva. Chi mi conosce sa che non sono così folle da dichiarare una cosa simile (e nemmeno da pensarla), tuttavia voglio cercare di focalizzare l’attenzione su un problema troppo trascurato, di fronte al quale ci scopriamo spesso accondiscendenti. O peggio, assuefatti. L’igiene degli impianti nei quali si conserva e si trasforma il latte; siamo certi che “debba” essere quel che è, senza “se” e senza “ma”?
Il problema si divide in due macrosettori: quello degli impianti o apparecchiature “aperte” e quello degli impianti “chiusi”. Tutte le attrezzature e le apparecchiature “aperte” vengono lavate manualmente, e l’impiego delle mani, delle spazzole, dei detergenti (e della vista!) comporta la possibilità di mantenere un buon grado di igiene. Infatti, se al lavaggio di un’attrezzatura ci si accorge che questa non appare pulita a dovere, si tende a ripetere l’operazione, insistendo maggiormente.
Ma chi pulisce manualmente le attrezzature e gli impianti? Chi può vedere al loro interno, e decidere di operare una pulizia più accurata? Certamente tutti i piccoli produttori, i piccoli caseificatori, e tutti quelli che dispongono di una strumentazione semplice (secchio, tino, piano, caldaia, etc.). In questi casi i processi di lavaggio sono dettati da una sequenza semplice, che prevede un prerisciacquo per tirare via i residui, a cui segue un lavaggio vero e proprio con acqua calda e detergente. Ma soprattutto si interviene manualmente, strofinando le apparecchiature, per terminare le operazioni di pulizia con un abbondante risciacquo con a base di semplice acqua fredda.
Naturale, “automatico”, impercettibile nelle sue singole azioni, il comportamento del produttore che fa scivolare la mano sulle pareti delle attrezzature o avvicina un secchio, o si china su un contenitore ad annusare. Comportamento “automatico” e impercettibile che consente, grazie all’esperienza maturata negli anni, di capire se gli strumenti siano stati puliti bene o se vi siano rimasti tracce di sporco o – peggio – di detersivo. Inoltre, in questi casi, tutte le volte che si riprendono in mano le attrezzature per la successiva operazione (sia essa una mungitura o una caseificazione), il produttore si cura sempre di fare un risciacquo prima di portare a contatto il latte con le attrezzature (si tiene di conto persino di un poco di polvere!). Questo processo semplice consente certamente il mantenimento dell’igiene e al tempo stesso evita la contaminazione del latte con residui di detergente o, peggio ancora, di disinfettante.
In molti casi in cui un produttore di latte è anche caseificatore, data l’esigenza di mantenere un “equilibrio” microbico ottimale (ricordiamo che una buona parte dei produttori tradizionali lavora a latte crudo, con strumentazioni tradizionali e artigianali, che non pastorizza né usa batteri selezionati), si preferisce intervenire con pochi detergenti e disinfettanti prediligendo l’uso dell’azione meccanica dello strofinio delle mani sulle superfici.
Non di rado poi, capita di vedere un caseificatore artigianale utilizzare la scotta (residuo liquido della lavorazione della ricotta) bollente per pulire i secchi, i ripiani, i tini e le attrezzature più disparate.
Perché tutto questo? Come mai questi produttori non fanno uso – o ne fanno con moderazione – di detergenti e disinfettanti? Cosa potrebbe mai succedere se del detergente o del disinfettante venisse a contatto con il latte?
Domande legittime, certo, di fronte alle quali potremmo anche dire che non succede nulla di irreparabile, che tutti i detergenti e disinfettanti sono biodegradabili al 99%, che una presenza di residui non compromette la salubrità del prodotto.
In parte è vero, ma solo in parte.
Se in un sistema “manuale” impieghiamo troppo detergente, o troppo disinfettante, in effetti rischiamo qualcosa di ben grave, vale a dire di causare un “collasso” batterico, vale a dire una perdita di batteri lattici, spesso quelli “buoni”, necessari per la caseificazione.
I processi di caseificazione tradizionale si muovono su un delicato equilibrio di batteri “buoni”, che combattono una lotta biologica contro i batteri “cattivi”. L’eccessivo uso di detergenti aggressivi comporta certamente un abbattimento dei batteri “cattivi”, ma parimenti sfoltisce la presenza dei batteri “buoni”, creando non poche difficoltà alla produzione all’interno di sistemi tradizionali.
Per ovviare a tutto ciò, i casari ricorrono all’aggiunta di “innesti” al latte, che nel caso delle produzioni tradizionali, possono e devono essere ottenuti in loco (lattoinnesti o sieroinnesti). Per contro, nei processi industriali si preferisce pastorizzare tutto e aggiungere innesti standardizzati, di provenienza industriale.
Riassumendo, possiamo asserire che, nei sistemi “aperti”, la miglior pratica è quella di limitare l’uso dei detergenti, di fare molto uso di “olio di gomito”, e di stare molto attenti alla delicatissima fase del risciacquo, che deve avvenire sempre con acqua fredda e abbondante, tanto alla fine del processo di igienizzazione che alla ripresa del lavoro, per sciacquare nuovamente le attrezzature prima del loro riutilizzo.
Nei caseifici tradizionali, tuttavia, l’impiego della scotta calda consente un buon sistema di sanificazione delle attrezzature e sviluppa un processo di selezione naturale dei ceppi batterici “utili”.
La prossima settimana torneremo sul tema, prendendo in esame l’igiene degli impianti chiusi, e ne avremo di cose interessanti di cui parlare. Rimanete sintonizzati!
21 settembre 2015
Per approfondire: Guida di buona prassi igienica per i caseifici di azienda agricola (pdf, 1,4Mb)- Regione Piemonte 2014©
Rosario Petriglieri
Allevatore, figlio d’arte, laureato in Agraria e abilitato Agronomo. Ricercatore presso il CoRFiLaC (Consorzio Ricerca Filiera Lattiero Casearia) di Ragusa, è specializzato in nutrizione, management e gestione degli allevamenti di vacche da latte. Maniscalco specializzato in cura delle patologie podali dei bovini; inseminatore laico. Sin dall’infanzia si è occupato di vacche da latte, lavorando nell’azienda di famiglia. Da sempre nutre la passione per la veterinaria, ma i percorsi storici e certi incontri occorsi in particolari periodi di crescita lo hanno portato ad interessarsi di prevenzione, mediante nutrizione e gestione, piuttosto che puntare alle sole terapie.
Petriglieri ha vissuto tutte le stagioni dell'”evoluzione” del mondo zootecnico, passando dai periodi più faticosi del coltivare la terra con i muli sino all’impiego dei trattori più avanzati; dal sistema manuale di raccolta dei foraggi sino alla gestione di ogni tipo di conservazione più moderna degli stessi (tecniche di insilamento e fieno silo; trebbiatura del frumento con i muli; impiego della mietitrebbia). Per quanto concerne la mungitura, dalla quella manuale delle vacche e delle pecore, sino alla gestione di aziende dotate di robot di mungitura. Sulla trasformazione del latte: da quella della sua azienda familiare sino alla gestione di una cooperativa di 250 soci.
Petriglieri ama definirsi “contrario a qualsiasi forma di eccesso, ma mi piace immedesimarmi negli animali che gestisco, per rendere loro fisiologico qualsiasi trattamento gestionale a cui devono essere sottoposti”. Ha una predilizione per le pratiche naturali, estensive ed ecosostenibili.