Impianti lattiero-caseari “chiusi”: quando l’igiene è una chimera

di Rosario Petriglieri, dottore in agraria

foto Arc Machines Inc.©

In questo secondo articolo sull’igiene trattiamo di impianti – per lo più piccoli e medi – caratterizzati dalla presenza di tubature e di componenti chiusi, in cui non è possibile operare interventi di pulizia manuale; impianti in cui, volenti o nolenti, ci si deve affidare a sistemi di lavaggio automatici. Ci riferiamo quindi non solo a caseifici di piccole e medie dimensioni, dotati di attrezzature per lo più chiuse ma anche a impianti di mungitura meccanizzata (sale di mungitura) e alle vasche di refrigerazione latte di grandi dimensioni. Non tratteremo, in quest’ambito i grandi impianti industriali, per lo più’ dotati di sistemi di lavaggio automatico di maggior complessità.

Comprensibilmente, questi impianti non possono, se non marginalmente e in alcuni punti critici, essere puliti manualmente; la loro igiene dovrà quindi essere garantita da un sistema di lavaggio e disinfezione automatico.

I sistemi di lavaggio automatico operano prevalentemente su 3 o 4 cicli e hanno il loro punto di forza (o di debolezza) nella qualità dell’acqua (acque troppo dure lavano meno bene), nella temperatura dell’acqua di lavaggio (spesso non si hanno quantità di acqua calda sufficiente per i cicli di lavaggio) e nella qualità dei detergenti/disinfettanti utilizzati.

Un primo ciclo prevede una fase di prelavaggio con acqua a 40-50°C (la temperatura a cui viene portato il latte, all’incirca), senza detergenti né disinfettanti. In questa fase, l’obiettivo è quello di tirare via i residui del latte, e in particolar modo per togliere i resti di materia grassa. Questa fase dell’igienizzazione è molto veloce, con un solo passaggio di acqua che viene immediatamente scaricata dall’impianto.

In  un secondo ciclo, che impiega acqua oltre i 60-70°C e detergente e che dura parecchi minuti, l’impianto viene poi deterso in modo adeguato e in ogni sua parte.

Condizione essenziale per una corretta pulizia e igienizzazione dell’impianto sono la giusta quantità d’acqua utilizzata e la temperatura della stessa, che anche a fine ciclo non dev’essere inferiore a 60°C.

Inoltre, l’impianto deve poter garantire, nei processi di ciclicità dell’acqua di lavaggio, una adeguata “turbolenza”, per sopperire così all’impossibilità di operare un’adeguata azione meccanica sulle pareti.

Tutti i detergenti impiegati sono classificati in due categorie: alcalino (o “giornaliero”), utilizzato tutte le volte che si finiscono le operazioni in cui il latte è stato a contatto con l’impianto, e acido (o “settimanale”). Quest’ultimo viene utilizzato per rimuovere le eventuali incrostazioni che il lavaggio giornaliero non riesce a togliere.

Tutti i detergenti possono contenere, oltre ai principi pulenti, anche dei principi disinfettanti, per un potenziamento dell’azione di contrasto allo sviluppo batterico.

Il terzo ciclo avviene con acqua fredda, ha il compito di sciacquare tutte le condutture per tirare via ogni residuo di detergente. Spesso può capitare, secondo la tipologia degli impianti, che si possano programmare ben due cicli di risciacquo, proprio a significare l’importanza di questa operazione.

Un 4° e 5° ciclo, infine, possono prevedere, prima dell’impiego dell’impianto, un risciacquo con un blando disinfettante (che non richiede risciacquo, ndr) per sanificare tutte le tubature.

Ovviamente il sistema di pulizia ciclico permette un abbattimento assoluto di batteri in tutte le condutture, e questo è cosa buona, misurabile mediante la conta batterica del latte che passa da quelle attrezzature. La legislazione indica un valore massimo di carica batterica del latte in cisterna non superiore alle 100.000 ufc (unità facenti colonia). In presenza di impianti efficienti non è raro invece trovare una carica batterica di 5-10.000 ufc.

Riassumendo, un impianto chiuso, che si lava con sistema ciclico, ha il “compito” di distruggere tutto quello che residua sulle pareti, per l’impossibilità di discriminare tra la regolare proliferazione di batteri “utili” e quella dei batteri “dannosi”. Non esistendo possibilità di modulazione manuale, va da sé che la ricerca dell’asetticità sia di dovere. Quanto evidenziato poi nel precedente articolo mirava a promuovere il mantenimento di un “biofilm” sulle pareti dell’impianto: solo il un controllo visivo e l’intervento “manuale” che favoriscono, complice l’esperienza e la sapienza del casaro, lo sviluppo di colonie batteriche utili, necessarie e caratterizzanti i prodotti che si andranno ad ottenere.

Tuttavia gli impianti chiusi incorrono spesso in problemi non semplici, legati proprio a “intoppi” di sistema, ma di questo, ovviamente, nessuno ne parla. Capita ad esempio i sistemi di pulizia non siano efficienti, a causa della mancanza di acqua molto calda (60-70°C) e per parecchio tempo (mediamente 15′-20′). Le industrie che forniscono prodotti e apparati per la manutenzione garantiscono sempre di poter venire incontro a simili problemi fornendo detergenti “miracolosi”, capaci di operare a bassa temperatura. Non certo il massimo – credetemi – a cui un buon produttore potrebbe ambire.

E cosa dire poi di impianti con scarsa turbolenza o con cicli di risciacqui blandi? Che trattandosi di impianti chiusi, nessuno potrà vedere cosa vi è all’interno, e che – senza un lavaggio davvero efficace – il rischio di produrre formaggi inquinati è altissimo.

Inoltre, per quanto ciò non rappresenti la regola, può anche accadere – e a volte accade – che certi residui vadano a finire nel latte. E che, a differenza di ciò che potremmo dire noi, qualche produttore, investito da un tal problema, possa – più che cercare di debellarlo – limitarsi a compiacersene. Dopotutto, se un disinfettante riesce ad abbassare la CBT (carica batterica totale) a qualcuno potrebbe anche convenire acquistare latte non del tutto “pulito” (costa meno, ndr) sapendo che poi pulito lo risulterà comunque.

Spalancata così una finestra su un simile scenario, il prossimo quesito lo porrei a voi: riuscireste a trasformare un latte tanto “pulito”? Probabilmente no. A patto che non usiate sistemi industriali con cui non avrete problemi, anzi. Se la vostra attrezzatura sarà invece tradizionale, non sarete di fronte alla classica “passeggiata”. Tutt’altro, A meno che non facciate uso di innesti (sieroinnesto, lattoinnesto, ndr) o di contenitori “porosi” (legno) e “vissuti” che, disponendo di un biofilm sulle pareti, riusciranno a “contaminare” nuovamente il latte.

Allora dove ricercare una soluzione? Nella scelta di un latte più “inquinato”, nel sapiente contesto di una tradizione che sa distinguere bene il concetto di “pulizia”, oppure nell’ottenimento di un prodotto (il latte) quanto più inerte possibile per poter poi scegliere come manipolarlo? Ogni operatore saprà fare la sua scelta, intimamente connessa con altre scelte aziendali e personali.

La mia l’ho fatta da anni, ed è quella che spero venga fatta da un numero di produttori sempre maggiore, che sappiano dare alle loro produzioni il giusto concetto di igiene, per continuare a fare ognuno il “suo” formaggio e per resistere ad un processo di globalizzazione secondo cui, per qualcuno (anzi per molti), il “non gusto” è bello.

28 settembre 2015

Per approfondire: Guida di buona prassi igienica per i caseifici di azienda agricola (pdf, 1,4Mb)- Regione Piemonte 2014©

Dottore in Scienze Agrarie, abilitato agronomo at dipendente CoRFiLaC (Consorzio Ricerca Filiera Lattiero-Casearia) di Ragusa); libero professionista

Rosario Petriglieri
Allevatore, figlio d’arte, laureato in Agraria e abilitato Agronomo. Ricercatore presso il CoRFiLaC (Consorzio Ricerca Filiera Lattiero Casearia) di Ragusa, è specializzato in nutrizione, management e gestione degli allevamenti di vacche da latte. Maniscalco specializzato in cura delle patologie podali dei bovini; inseminatore laico. Sin dall’infanzia si è occupato di vacche da latte, lavorando nell’azienda di famiglia. Da sempre nutre la passione per la veterinaria, ma i percorsi storici e certi incontri occorsi in particolari periodi di crescita lo hanno portato ad interessarsi di prevenzione, mediante nutrizione e gestione, piuttosto che puntare alle sole terapie.
Petriglieri ha vissuto tutte le stagioni dell'”evoluzione” del mondo zootecnico, passando dai periodi più faticosi del coltivare la terra con i muli sino all’impiego dei trattori più avanzati; dal sistema manuale di raccolta dei foraggi sino alla gestione di ogni tipo di conservazione più moderna degli stessi (tecniche di insilamento e fieno silo; trebbiatura del frumento con i muli; impiego della mietitrebbia). Per quanto concerne la mungitura, dalla quella manuale delle vacche e delle pecore, sino alla gestione di aziende dotate di robot di mungitura. Sulla trasformazione del latte: da quella della sua azienda familiare sino alla gestione di una cooperativa di 250 soci.
Petriglieri ama definirsi “contrario a qualsiasi forma di eccesso, ma mi piace immedesimarmi negli animali che gestisco, per rendere loro fisiologico qualsiasi trattamento gestionale a cui devono essere sottoposti”. Ha una predilizione per le pratiche naturali, estensive ed ecosostenibili.