di Rosario Petriglieri, dottore in agraria
L’insilato è il prodotto di una tecnica di conservazione del foraggio verde – l’insilamento – che si realizza mediante acidificazione della massa vegetale (di norma tagliata finemente) ad opera di microrganismi anaerobi, allo scopo di impedire a microrganismi alteranti e potenzialmente tossici di proliferare all’interno della massa vegetale, provocandone il consumo (perdita di valore nutritivo) e lo sviluppo di sostanze insalubri.
Gli obiettivi che portano a conservare un foraggio sotto forma di insilato sono molteplici, primo fra tutti l’esigenza di conservare il foraggio verde per i periodi di carenza. Inoltre la conservazione mediante insilamento comporta la disponibilità di un foraggio più ricco rispetto al fieno (i processi di fienagione comportano non poche perdite, se non ben gestiti), più digeribile, più simile all’erba (simile, ma non uguale, anzi, profondamente diverso: quasi opposto).
La conservazione dei foraggi mediante insilamento è una tecnica molto antica (documenti storici risalenti al 1500 a.C. ne attribuiscono la paternità agli egizi); consiste nello stoccaggio della massa vegetale in particolari contenitori chiusi (i silos tradizionali) o anche, più semplici e diffusi, in silos all’aperto.
I silos sono quelle strutture (oggi anche solo spazi aperti, piattaforme) atte a contenere la massa di foraggio nella quale questa viene stratificata e compressa ai fini di eliminare l’aria dal suo interno. In questi silos la massa viene protetta dall’ambiente esterno e di fatti viene impedito l’apporto di ossigeno. Terminata la compressione/costipazione della massa foraggera, viene operata una copertura con film plastico per isolare e sigillare il tutto dentro quello spazio definito.
L’ossigeno presente naturalmente all’interno della massa (che deve essere ridotto al minimo) viene consumato nel primissimo periodo della maturazione dell’insilato ad opera dei batteri aerobi del foraggio stesso.
La corretta fermentazione di un insilato: si osserva la diminuzione del ph al diminuire della presenza di ossigeno. Fase 1 di respirazione. Fase 2 di acidificazione acetica. Fase 3 e 4 di acidificazione lattica. Di norma le fasi si esauriscono in circa tre settimane, per lasciare stabile la conservazione dell’insilato nel tempo – tabella tradotta da Hubbard Feeds Inc©
Nei primissimi giorni, infatti, si ha una fermentazione acetica aerobica che abbassa il pH fino a 4,5-5. Una volta esaurita l’attività dei batteri aerobi, per consumo dell’ossigeno residuo, iniziano a svilupparsi le fermentazioni acetiche, per mezzo dei batteri anaerobi. L’acidificazione dell’ambiente del silo porta allo sviluppo dei batteri lattici che opereranno la fermentazione lattica, portando il pH a valori preferibilmente minori di 4.
Le caratteristiche ottimali di un insilato sono proprio la conservabilità (che si ottiene a pH basso, generalmente inferiori a 4), l’odore aromatico e acidulo, non pungente (come un sott’aceto di qualità), il colore del foraggio leggermente più imbrunito dal colore del rispetto al foraggio verde, l’assenza di muffe e la temperatura di conservazione bassa (un buon insilato deve essere sempre freddo).
Tutte le piante foraggere possono essere conservante mediante insilamento. Sarà importante rispettare i requisiti minimi che deve possedere un foraggio, ovvero una Sostanza Secca (SS) variabile da un minimo del 25% a un massimo del 35%. Valori inferiori o superiori potrebbero essere deleteri per i processi di conservazione.
Fin qui la tecnica; tutto lineare, tutto bello e funzionale.
Come capita di dire o anche di sentire spesso, il problema sta nell’equilibrio delle cose. Nulla è negativo in assoluto, nulla è positivo in assoluto, tutto deve avere una logica, una ragione, un nesso e soprattutto una utilità nel rispetto degli utilizzatori finali (in questo caso dei ruminanti, ma anche di noi che consumiamo i prodotti ottenuti da ciò che essi mangiano).
Uno dei primi problemi dell’uso degli insilati nelle diete è dato proprio dalla qualità; se il prodotto viene bene, se ne potrà fare un uso corretto. Ma se il prodotto non viene bene, se viene cattivo o anche solo scadente, che fine fa? Un allevatore accorto lo dovrebbe buttare. E quel condizionale “dovrebbe” non è mai stato usato in maniera tanto appropriata. Perché – a parte rare eccezioni – tutti lo useranno ugualmente.
In genere l’insilato si utilizza, nei modi e nei quantitativi suggeriti da un bravo tecnico che dovrebbe anche saper prevedere gli effetti negativi, e cercare di prevenirli e correggerli (per fortuna le soluzioni esistono, ed è vero che alcune aziende ci aiutano, fornendoci ogni sorta di tamponi e di additivi idonei all’uopo).
Un altro problema potrebbe essere dato dall’inquinamento causato da spore dell’insilato, che potrebbero arrivare al latte, compromettendo di fatto la qualità dei formaggi (i gonfiori spesso sono legati a tali cause). Situazioni come questa si verificano principalmente quando si munge “a secchio” o a mano dentro una stalla in cui l’alimentazione dei ruminanti prevede la somministrazione di insilati. In tale situazione, l’aria satura di spore potrà facilmente inquinare il latte(1).
Certo, se si pastorizza e si aggiungono fermenti, se si producono solo prodotti freschi, si può anche nascondere il problema, ma se si lavora “a vivo”, usando latte crudo, con flora microbica naturale o indotta mediante sieroinnesti o lattoinnesti, allora si rischia qualche complicazione in più(2).
Ma esiste un altro problema che ai più sfugge. L’insilato è un prodotto acido, che va a sostituire l’erba nei periodi di carenza. Il rumine è invece un ambiente che deve tendere a mantenere un equilibrio prossimo alla neutralità.
Per mantenere un ambiente ruminale nel suo equilibrio fermentativo i ruminanti producono saliva, per l’appunto grazie alla ruminazione.
Ma se diamo un prodotto acido, anche se tagliato finemente – pertanto con minore bisogno di essere ruminato – la produzione di saliva si riduce; ecco che interveniamo allora coi tamponi per mantenere il pH del rumine (siamo dei geni: prima alteriamo la fisiologia, poi interveniamo con gli artifici per ripristinarla).
Ovviamente non è tutto così elementare né semplicistico.
In conclusione, viene sempre da ribadire che, se un lavoro, una tecnica, una gestione sono oculati, non esistono motivi dogmatici per essere contrari a priori.
Ma in un mondo dove etica e affari fanno spesso a cazzotti tra di loro, sarà meglio fidarsi sempre delle cose semplici, dei processi naturali, dei sistemi ecosostenibili.
Spesso, piuttosto che puntare a guadagnare di più, si potrebbero perseguire gli stessi e più salutistici obiettivi spendendo di meno.
Ma per fare questo ci vuole sì molta molta buona tecnica ed esperienza in materia.
4 giugno 2015
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(1) “Durante il deterioramento aerobico l’insilato può costituire un sito preferenziale di moltiplicazione e selezione di microrganismi anticaseari molto aggressivi, quali i clostridi la cui presenza nel latte, anche se in numero contenuto, può rappresentare un serio problema per le produzioni casearie che richiedono lunghi periodi di stagionatura. Infatti le spore dei clostridi presenti in insilati contaminati, possono passare nel latte, sopravvivere alla pastorizzazione e provocare nei formaggi a lunga stagionatura il difetto denominato “gonfiore tardivo”. Un’altra situazione a rischio è il momento dell’apertura del silo che coincide con una fase in cui l’insilato è microbiologicamente instabile, in questo periodo i clostridi possono moltiplicarsi e creare problemi in sede di caseificazione.” – Tratto da Regione Piemonte – “Influenza del deterioramento aerobico degli insilati di mais sulla qualità del latte destinato alla caseificazione di Grana Padano” di Boreani G., Tabacco E., Giaccone D., Arru R., Peiretti P.G., Cavallarin L.; per scaricare il documento (pdf, 131kb) clicca qui
(2) “Qualità igienico sanitaria del latte”, Nudda A. – Corso Qualità delle Produzioni Animali – Università di Sassari, Dipartimento di Agraria – Scarica qui il documento (pdf, 2,4Mb)
Rosario Petriglieri
Allevatore, figlio d’arte, laureato in Agraria e abilitato Agronomo. Ricercatore presso il CoRFiLaC (Consorzio Ricerca Filiera Lattiero Casearia) di Ragusa, è specializzato in nutrizione, management e gestione degli allevamenti di vacche da latte. Maniscalco specializzato in cura delle patologie podali dei bovini; inseminatore laico. Sin dall’infanzia si è occupato di vacche da latte, lavorando nell’azienda di famiglia. Da sempre nutre la passione per la veterinaria, ma i percorsi storici e certi incontri occorsi in particolari periodi di crescita lo hanno portato ad interessarsi di prevenzione, mediante nutrizione e gestione, piuttosto che puntare alle sole terapie.
Petriglieri ha vissuto tutte le stagioni dell'”evoluzione” del mondo zootecnico, passando dai periodi più faticosi del coltivare la terra con i muli sino all’impiego dei trattori più avanzati; dal sistema manuale di raccolta dei foraggi sino alla gestione di ogni tipo di conservazione più moderna degli stessi (tecniche di insilamento e fieno silo; trebbiatura del frumento con i muli; impiego della mietitrebbia). Per quanto concerne la mungitura, dalla quella manuale delle vacche e delle pecore, sino alla gestione di aziende dotate di robot di mungitura. Sulla trasformazione del latte: da quella della sua azienda familiare sino alla gestione di una cooperativa di 250 soci.
Petriglieri ama definirsi “contrario a qualsiasi forma di eccesso, ma mi piace immedesimarmi negli animali che gestisco, per rendere loro fisiologico qualsiasi trattamento gestionale a cui devono essere sottoposti”. Ha una predilizione per le pratiche naturali, estensive ed ecosostenibili.