di Rosa Tiziana Procopio, dottoressa in scienze e tecnologie agrarie
Sempre più spesso si sente parlare di diverse tecniche di allevamento animale: “intensivo” ed “estensivo”, le più comuni. Sempre più spesso, e a giusta ragione, il consumatore non sa con esattezza cogliere la differenza tra l’uno e l’altro termine.
Grammaticalmente, la differenza tra i due lemmi risulta evidente, ma volendoli applicare all’allevamento animale, diviene più complicato per chi, “non addetto ai lavori”, non ha dimestichezza con la materia. Prima di fare luce su questo aspetto della cosa, ci soffermiamo su un’altra terminologia del settore – “allevamento animale” – vera e propria parola-chiave per la comprensione di molto altro ancora. Come da definizione, l’allevamento animale è stato intrapreso dall’uomo per gestire, mantenere e consentire la riproduzione di animali domestici, al fine ultimo di ottenerne uno “sfruttamento economico”. Ai più cinici questa definizione potrebbe risultare ostile, tuttavia è l’esatta definizione di quella tipologia di allevamento risalente al Secondo Dopoguerra, nata sulla scia di una industrializzazione spinta. Ancor prima, l’allevamento animale era invece semplice espressione delle esigenze alimentari dell’Uomo: una necessità di sostentamento per lo svolgimento delle attività quotidiane e di lavoro.
Soltanto adesso, negli ultimi 10-15 anni, la società ha cominciato a chiedersi quale sia l’intenzione e la necessità che muove la zootecnia e l’allevamento animale in genere, avvicinandosi sempre più verso l’allevamento quale forma di sostentamento delle esigenze alimentari dell’Uomo, pur consapevoli delle dimensioni dello stesso non più “famigliari” bensì “produttive”.
Considerando storicamente quello che è, è stato e fu l’allevamento di animali nel corso dei tempi, si può ben inquadrare anche l’adozione dei due termini precedentemente detti: “intensivo” ed “estensivo”.
L’allevamento nato nel Secondo Dopoguerra, dopo un periodo storico difficile e con la diffusa necessità di reperire l’alimento per il sostentamento dell’Uomo, ha seguito un po’ (troppo!) la scia della stessa evoluzione che all’epoca vide l’industria protagonista. Massimizzazione dei profitti e delle produzioni, lavorazioni meccanizzate e incentrate sulla ottimizzazione, con unico obiettivo il guadagno e la produttività economica. Non sta certo a noi condannare la tipologia produttiva dell’epoca, ma il fatto che – storicamente – questa mentalità produttiva sia andata via via scemando, risultando ad oggi un carattere “deprezzante” rispetto ad uno o l’altro prodotto acquistato/consumato, lascia intendere la presenza di caratteristiche negative intrinseche non condivise dai molti.
Mentre l’allevamento intensivo si diffondeva soprattutto nel Settentrione, ovvero in regioni più progredite economicamente in quegli anni, sempre alla ricerca di produzioni stimabili economicamente e apprezzabili in termini monetari, il Meridione si soffermava sempre più sull’utilizzazione delle superfici agrarie disponibili, mediante un’agricoltura di “sussistenza” vocata più alla produttività famigliare che non alla commercializzazione di prodotti a livello nazionale e oltre. I territori disponibili per tali attività produttive erano (e lo sono anche oggi), superfici molto diverse in quanto a conformazione orografica rispetto a quelle del Nord, per la presenza di una forte dominanza di montagna e collina (anche fino al 90%!) sui territori di pianura. Ciò comporta difficili condizioni climatiche, superfici percorribili e gestibili con maggiore difficoltà, agricoltura legata rigidamente alle stagioni.
Per tali motivazioni, e altre storiche più complesse, è nel Meridione che più si è diffuso l’allevamento estensivo: gestione e allevamento degli animali secondo i ritmi naturali delle stagioni, rigorosamente al pascolo o con alimentazione ad libitum di affienati somministrata su superfici recintate all’aperto. Questa tipologia d’allevamento, con qualche piccolo accorgimento, aggiunto negli anni per migliorare l’attività dell’allevatore (non per “massimizzare” le rese), si è mantenuta nel tempo, risultando ad oggi apprezzata e diffusa sempre più.
Abbiamo distinto due termini e due mentalità produttive della stessa zootecnia nazionale tramite una discriminante geografica, regionale, pur consapevoli che laddove, su tutto il territorio nazionale, si riscontrano le medesime condizioni geografiche-territoriali si può manifestare la presenza dell’una o dell’altra tipologia produttiva.
Ciò che non abbiamo ancora detto è in cosa consistono queste due tipologie produttive, in termini di allevamento, ma anche di prodotto acquistabile.
Un prodotto-emblema dell’allevamento intensivo per definizione è il latte alimentare. Ci riferiamo in particolare a quel latte commercializzato come “a lunga conservazione” e sempre disponibile nei supermercati di tutta Italia. Dicendo latte ci si riferisce inevitabilmente alla razza bovina Frisona, che è oggi la razza più utilizzata per produzioni di questo tipo: garantisce all’allevatore all’incirca 8.500 Kg/latte/lattazione (lattazione = 305 giorni/anno; clicca qui). Si può ben immaginare che produzioni di 24 Kg di latte al giorno (per non parlare dei picchi-record di 60 Kg di latte al giorno!!), non rappresentano produzioni “tipicamente” originarie di razza, bensì un traguardo ottenuto a seguito di lavori genetici di selezione per massimizzare le produzioni e ottenerne maggiore introito economico. Perché tutto questo? Il motivo è quello storico espresso poc’anzi. Ad oggi ancora questa tipologia di allevamento per la produzione di latte continua ad avere spazio, anche in concomitanza dei limiti europei imposti tramite l’ausilio delle quote-latte; tuttavia, per altre tipologie di prodotto, come la carne, la situazione è ben diversa.
La produzione di carne fresca da allevamento intensivo ha subito numerose modificazioni negli anni, pur partendo dall’allevamento intensivo per definizione: cuccette a posta singola, nessuna possibilità di movimento per l’animale se non postura eretta e/o distesa, e alimentazione a base di mangimi concentrati all’ingrasso. Nel corso degli anni si è intervenuti, grazie soprattutto all’attenzione del consumatore verso il metodo produttivo e le direttive europee in materia di benessere animale, tramite l’inserimento di aree di esercizio e paddock esterni per l’attività fisica dell’animale, con l’eliminazione o quantomeno con l’aumento di spazio per le cuccette singole. Per quanto riguarda l’alimentazione invece, la caratteristica dell’intensivo rimane sempre basata sull’ausilio di foraggi affienati e insilati e mangimi concentrati.
Le stesse produzioni (carne e latte) sono ottenibili anche dalla tipologia estensiva, tramite l’esclusiva scelta di alimentazione al pascolo e integrazione di foraggi affienati solo in condizioni particolari, movimentazione della mandria 24h su 24h, esclusivo uso di superfici pascolive all’aperto e recinzioni semplici per lo spostamento in rotazione della mandria. Non sussistono stalle a posta fissa né sale di mungitura (per il prelievo del latte si procede manualmente o con l’ausilio di mungitrici mobili, di recente introdotte per favorire l’allevatore pur mantenendo alta la qualità della produzione, nel caso di mandrie da latte); non sussiste l’utilizzo di mangimi concentrati, ma solo di alimento fresco e di variegata qualità botanica. Anche in questo caso viene da chiedersi: “perché?” E ancora una volta i motivi sono prettamente quelli storico-geografici già detti. In aggiunta a questi possiamo dire però qualcosa sulla qualità delle produzioni, che è andata via via rendendosi artefice del mantenimento di questa tipologia produttiva, per scelta di un’emergente figura di consumatore, che nel mercato vasto e omogeneo (paradossalmente) finora avuto a disposizione, preferisce sempre più scegliere il prodotto “di nicchia”, più sapido, più pregiato, più importante qualitativamente, più tradizionale, rispetto al prodotto ottenuto dalla massimizzazione delle produzioni e per una commercializzazione su ampio raggio.
Vuol dire questo che è migliore un prodotto da produzione estensiva rispetto ad uno da produzione intensiva? Per poter rispondere a questa domanda dobbiamo fare attenzione a cosa si intende per “Qualità”.
Se per “Qualità” intendiamo quella di un prodotto ricco e nobile dal punto di vista organolettico e gustativo, come un formaggio ottenuto da animali alimentati con essenze aromatiche preziose, allora si, l’allevamento estensivo è migliore di quello intensivo!
Se per Qualità riteniamo invece un prodotto garantito da un marchio nazionale o addirittura internazionale, prontamente disponibile in più nazioni e catene di supermercati, riconoscibile al gusto da chiunque perché omogeneo nella produzione sempre e in qualsiasi stagione produttiva, allora diviene migliore l’allevamento intensivo.
In entrambi i casi c’è però da tenere presente il motivo per cui oggi, nel XXI secolo, ci cibiamo: la distribuzione oggi del cibo sulla superficie mondiale e le caratteristiche di longevità e robustezza di tutte le civiltà mondiali. L’alimento è il nostro sostentamento in quanto Uomini; deve essere mirato e seguito per scelta ragionata ed eticamente guidata verso produzioni di pregio, per migliorare le produzioni stesse attraverso le nostre scelte e mantenendo le produzioni il più possibile vicine ai cicli naturali, quelli che oggi, domani, e ieri, possono essere ripetuti e mantenuti sempre con la stessa efficienza e con lo stesso prestigio qualitativo. Per noi, che ci alimentiamo oggi, ma anche per le future generazioni che si alimenteranno domani, grazie forse anche al nostro contributo.
Solo in questo modo possiamo ritenerci consapevoli della Qualità di ciò che ci nutre e che preferiamo.
26 giugno 2015