La Savana in Africa? Si è formata grazie ai pastori di 3.700 anni fa

Savana africana – foto Elena© Creative Commons License©

La savana africana, lo abbiamo tutti studiato alle scuole medie, è quel particolare territorio del Continente Nero felicemente ricco di piante, arbusti, alberi e – in determinate aree – di una vegetazione bassa rigogliosa, di cespugli ed erba, che a tratti può apparire sorprendente.

Un recente studio della Illinois University, in collaborazione con la Washington University, pubblicato sulla rivista scientifica Nature (“Ancient herders enriched and restructured African grasslands”) ha rivelato che tale caratteristica è strettamente legata alla fertilità del suolo, dovuta alla presenza di allevamenti, protrattasi in quei territori per un periodo valutato tra i 2mila e i 3mila anni.

In particolare le aree più ricche di vegetazione sarebbero strettamente legate alla pratica di ricoverare gli animali in recinti durante la notte (pratica che ritroviamo ancora in uso, anche nelle nostre campagne, con gli stazzi per ovicaprini e i recinti per i bovini, ndr). A sostenerlo è la dr.ssa Fiona Marshall della Washington University di St. Louis, che ha collaborato con i colleghi dell’Illinois.

Il dr. Stanley H. Ambrose (Illinois University), responsabile del progetto, ha poi precisato che «quando i pastori dell’età della pietra giunsero nell’Africa orientale circa 3.500 anni fa, modificarono la vegetazione in meglio: gli allevatori, anziché degradare la savana, ne hanno aumentato la diversità degli ecosistemi, la resilienza e la stabilità, dopo aver abbandonato i loro insediamenti».

Per interpretare a fondo il rilevante lascito della lunga permanenza di quegli antichi allevatori, i ricercatori delle due università statunitensi si sono concentrati su cinque siti archeologici legati alla presenza di popolazioni che nel neolitico erano dedite alla pastorizia, nell’attuale Kenya sud-occidentale. L’attività di studio ha permesso di confrontare le vegetazioni autoctone di quel territorio con quelle presenti nei siti naturali nelle vicinanze. E in più, grazie alla datazione al radiocarbonio, ha consentito di attribuire i reperti ad un periodo compreso tra i 1.500 e i 3.700 anni fa.

Nei siti in cui hanno operato la ricerca, gli studiosi hanno adottato una grande varietà di tecniche per analizzare i sedimenti archeologici. Tra di esse, le analisi chimiche, isotopiche e sedimentarie, per studiare l’elevato arricchimento di nutrienti nei suoli ma anche le diverse composizioni esistenti tra i terreni ricchi di depositi di sterco degradati in esame e i quelli prossimi ai cinque siti suddetti.

Rispetto alle aree limitrofe, quelle utilizzate dagli antichi pastori per ricoverare le loro bestie hanno disvelato dei livelli decisamente elevati di azoto e di vari nutrienti minerali, tra cui il calcio e il fosforo. In particolare, nelle aree utilizzate dai pastori gli isotopi del carbonio e dell’azoto sono risultati coerenti con quelli trovati nello sterco e nelle urine dei ruminanti. Lo studio ha quindi dimostrato la stretta relazione tra l’alta concentrazione del letame di questi animali, la fertilità del suolo e la crescita di foraggio di alta qualità presente nelle zone in esame.

Senza questo arricchimento della fertilità, dovuto all’antropizzazione di questi luoghi, il paesaggio non sarebbe ora così ricco di vegetazione. Inoltre è stato evidenziato come, a distanza di millenni, la ricchezza biologica di questi terreni continua ad attrarre animali, confermando l’inestimabile valore di queste aree, per la ricchezza di sostanze nutritive ancora presenti dopo così tanto tempo.

Il perpetrarsi delle attività pastorali in alcune di queste zone ha infine dimostrato un progressivo arricchimento dei suoli.

1º ottobre 2018

Per approfondire, cliccare qui per l’articolo pubblicato dal sito di Nature [ref.: Nature, volume 561, pagine 387-390 (2018)]