Etica del cashmere e vita dei pastori nell’era del mercato globale

L’estata è torrida e l’inverno glaciale per i pastori mongoli e per le loro capre Cashmere – foto Sustainable Fibre Alliance©

Come tutti patrimoni di conoscenze, la cultura del cashmere ha radici profonde, fatte di esperienza, tradizione, tecnica, passione, dedizione. Di uomini e donne che lavorano, producono e vivono, alcuni allevando animali, altri finalizzando commercialmente la materia grezza. Attenzione però, a proposito di cachmere, a non incappare nell’errore più diffuso, vale a dire a pensare che questo prodotto, all’origine, sia una lana, perché lana non è. Ed è qui – o anche qui – il fascino di questo materiale, e dei prodotti che ne derivano.

Il cachmere infatti è fibra. Fibra di capra, vello – o meglio sottovello, il duvet – di animali dell’omonima razza – Cashmere o Kashmir che dir si voglia – e delle sue derivate (in India, Tibet, Cina, Mongolia, Pakistan e Afghanistan, ma anche in Nord America, Oceania ed Europa). Animali caratterizzati da una fibra finissima, generalmente lunga 50-130mm e molto sottile (11-18 micron), utilizzata nella fabbricazione di maglierie di lusso e di stoffe per cappotti e abiti.

Il pregio e il valore del cashmere deriva, oltre che dalle eccezionali caratteristiche di finezza (la lana più sottile ha spessore attorno ai 22 micron), dalla morbidezza e lucentezza della fibra, dalla limitazione dell’habitat in cui l’animale può riprodursi, e dalla scarsa quantità (50-400 gr) di pelo fornito annualmente da ogni animale.

Il primo produttore mondiale di cashmere grezzo è la Repubblica Popolare Cinese (dal 60% fino anche al 90%), Paese che purtroppo non eccelle nel campo delle pratiche zootecniche, in cui spesso emergono problemi nella gestione delle greggi e nella tutela del territorio.

Tra gli altri Paesi produttori, la Mongolia sta vivendo un momento di valorizzazione del proprio prodotto, grazie anche al supporto del progetto “Sustainable Fibre Alliance”, voluto da un’associazione che si occupa della tutela dei territori di produzione, attraverso un proprio Codice di Sviluppo che prevede l’aiuto dei pastori nella conservazione della biodiversità dei pascoli, e del benessere animale, che si avvale della fornitura di stallette mobili che le capre locali pare abbiano particolarmente gradito.

La moda così, una volta tanto, non si limita a guardare unicamente l’estetica e il business, ma cerca di coniugare con essi un approccio etico che punti a migliorare le condizioni di vita di chi ricopre il compito più rilevante e ingrato, che come sempre è il ruolo di chi, nel mondo rurale, produce una materia prima per conto di mercanti e industriali.

Educazione, sviluppo ed economia sostenibile sono gli obiettivi che la Sustainable Fibre Alliance si prefigge di raggiungere per le comunità dei pastori mongoli, per proteggere e sostenere le generazioni future in territori che stanno vivendo una situazione particolarmente difficile, a causa dei forti cambiamenti climatici.

Un’approfondita analisi sull’economia del cashmere in Mongolia nell’era postsocialista (pubblicata qui: “Collaborazione per la sopravvivenza nell’era del mercato: diverse pratiche economiche nella Mongolia postsocialista”, in lingua inglese), fa ben intendere la situazione attuale di quel bacino produttivo e i canoni che regolano le relazioni tra pastori, commercianti locali e aziende straniere, che acquistano là quella che è considerata la fibra cashmere più pregiata del mondo.

10 dicembre 2018