Si fa un certo parlare – da queste pagine e negli ambienti più “consapevoli” – del vero benessere animale, riferendoci anche e soprattutto alla libertà dei ruminanti di muoversi in un prato, calpestare la terra e brucare l’erba. O per meglio dire, “le erbe”, già che ogni erbivoro, se lasciato libero di pascolare, le sue essenze vegetali le va a scegliere, brucando qua e là le une, necessarie al personale fabbisogno alimentare, e le altre, utili alla propria salute.
Nella stranezza apparente di questo mondo doppio, fatto di poca residua zootecnia estensiva, o naturale, e di molta e fallimentare(1) zootecnia intensiva, o industriale, c’è – ed è evidente – un mondo che si è appropriato di una terminologia – quella del presunto “benessere animale” – a cui mai avrebbe dovuto ambìre, se fosse stato mosso da oneste ragioni. E se avesse avuto piena coscienza della situazione in cui è, purtroppo, sia per quei poveri animali, sia per i consumatori.
Certo è che gli interessi delle lobby coinvolte nel business del latte intensivo (dei mangimisti, della farmaceutica, della zootecnia “migliorata” geneticamente, etc.) non sentono ragioni che non siano le proprie, ed è così che, sull’onda del reiterato ossimoro di un “benessere” riferito a bestie sofferenti, i consumatori meno attenti, i più pigri, i disinteressati al cibo, hanno purtroppo accettato, facendola propria, quell’idea assurda di “benessere animale” che benessere non è.
In un contesto generalizzato e diffuso, in cui si è creato il precedente di un’espressione accettata a dispetto della sua incongruità con l’evidenza dei fatti, tutto può essere ormai detto e fatto, in barba all’oggettiva gravità delle situazioni: di animali spremuti come limoni e poi gettati via e di problemi ambientali sempre più importanti, che inchiodano quel mondo alle proprie gravissime responsabilità.
Mai dire mais – Il business agrozootecnico, largamente basato sulla monocoltura del mais, ha messo in ginocchio l’ambiente, sottraendo ingentissime quantità di acqua, impoverendo e inquinando i terreni e soffocando la biodiversità. Ciò nonostante, chi ha interessi commerciali nella mangimistica pare non considerare né questo né quel che il futuro ci riserverà, di questo passo, anzi, quando parla di mais e delle sempre più gravi problematiche legate a quella coltura – negli ultimi anni aggredita dal problema delle micotossine – lo fa alludendo al concetto di biodiversità (che non va riferita ad una specie vegetale – il mais – bensì alle centinaia di specie vegetali che compongono, ad esempio, un prato stabile e il suo fieno) che proprio il mais ha aggredito, fiaccandola e mortificandola, ancora una volta sull’altare del profitto dei “soliti noti”.
“Le minacce alla biodiversità”, scrive Alessandra Favaro sulla Repubblica di mercoledì scorso 6 marzo, “danneggiano anche il made in Italy e i marchi Dop”. Incipit curioso, per un articolo che titolava “Mais in calo, la Dop a rischio”. Curioso per quanto su esposto, visto che proprio il mais e la sua coltura intensiva – come dicevamo – sono tra i principali responsabili della riduzione della biodiversità. E che quando si parla di tipicità dei prodotti territoriali (Dop), si vorrebbe che essa fosse riferita alle specifiche particolarità che il territorio esprime, in primis dalle sue terre fertili (giammai da quelle impoverite dalla mancanza di rotazioni colturali), in secundis dalle sue specie vegetali e floreali. Che il mais falcidia.
Di fronte a tali affermazioni, che lasciano increduli quanti abbiano un minimo di conoscenza e di spirito critico, il consumatore attento e consapevole cerca di capire, va avanti nella lettura dell’articolo, seppur sbigottito. Si chiede, oltre il poco esaltante nesso che si palesa esistere tra il mondo del mais e quello delle Dop (le maggiori denominazioni protette, tutte o quasi, prevedono l’uso o l’abuso di mais, molto spesso insilato, ndr) quali siano le ragioni che portano l’autore a parlare di “minacce alla biodiversità” parlando di quel cereale.
E allora, proseguendo nella lettura, scopre che il pezzo riporta né più né meno le affermazioni (e gli interessi) di tale Fabio Manara e della Federazione dei Commercianti di Prodotti Agricoli (ComPAg) da lui presieduta. Uno dei principali protagonisti del mercato mangimistico in Italia, altro che amico della biodiversità e dei prodotti tipici. Uno che nel settore il suo business l’ha costruito e mantenuto vendendo mangimi (sin qui nulla di male, s’intenda: ognuno vende ciò che vuole), arriva così senza colpo ferire al grande pubblico, abusando di un concetto che non gli compete (“biodiversità”, ndr) allo stesso modo in cui per anni le industrie hanno abusato (e abusano) di quello di “benessere animale”, declinandolo e piegandolo agli interessi di chi le bestie le segrega in stalla per tutta la loro (breve e sofferente) vita.
Vogliamo ancora credere a certa gente, e a certo giornalismo?
11 marzo 2019
(1) lo dimostrano, se proprio servisse dimostrarlo, la crisi della pastorizia sarda (e non solo sarda), che è crisi di un sistema industriale; il progressivo deprezzamento del latte vaccino alla stalla; l’incremento delle vacche da latte in Italia, a dispetto della continua chiusura di allevamenti di medie e piccole dimensioni; l’aumento di grandi stalle (≥500 capi)