C’è un fattore genetico nell’ipofertilità delle super-vacche da latte

Vacche di razza Frisona – foto Pixabay©

L’ipofertilità delle vacche da latte è – assieme alle mastiti, alle zoppie, alle acidosi ruminali e ad altre problematiche veterinarie – una delle maggiori questioni aperte che attanagliano la zootecnia intensiva, anche e soprattutto perché il mondo scientifico non ha ancora saputo leggere la pur ampia casistica esistente, sino a capirne le ragioni più profonde.

Per decenni la genetica ha lavorato in maniera esasperata – ed esasperante per le povere bestie – con il solo obiettivo di trasformare alcune razze bovine in vere e proprie “macchine da latte”, portando le lattifere più specializzate (di razza Frisona, in primis) a vivere una vita sempre più breve (attorno ai quattro anni, o anche meno) e in condizioni sempre più critiche. Basti pensare al fenomeno delle “mucche a terra”, animali talmente sbilanciati nel rapporto tra sistema mammario e struttura scheletrica, da concludere la loro esistenza nell’incapacità di mantenere la posizione eretta. E per questo venendo abbattute.

Se sinora si è brancolato nel buio, per ciò che concerne l’ipofertilità delle vacche da latte, da alcuni giorni si è dischiusa una prospettiva di qualche legittimo ottimismo per la possibilità di una sua interpretazione, grazie ai risultati di “Prolific”, studio condotto dai ricercatori della svedese Uppsala University e del francese Inra (Institut National de la Recherche Agronomique) di Nouzilly, nella Valle della Loira, che ha iniziato a far luce su questa seria problematica.

Il team composto dai ricercatori dei due enti ha identificato un gene che potrebbe spiegare il declino della capacità riproduttiva di quelle vacche da latte. In sostanza, per coprire il loro fabbisogno energetico all’inizio dell’allattamento, dopo il parto, le vacche da latte devono attingere alle loro stesse riserve corporee, e principalmente al tessuto adiposo. In particolare nelle razze caratterizzate da una maggior resa lattea, il metabolismo dei tessuti grassi avrebbe un forte impatto sulla loro capacità di riprodursi.

Grazie a “Prolific”, i ricercatori della Uppsala University e dell’Inra hanno compiuto un passo importante nella comprensione di questi meccanismi. Dopo anni di lavoro congiunto, hanno identificato un gene del tessuto adiposo che potrebbe essere coinvolto nel declino della fertilità delle mucche da latte. “Nelle vacche da latte”, spiegano i ricercatori, “la capacità di ingestione dopo il parto è insufficiente a coprire il fabbisogno energetico legato alla lattazione. Per compensare questo deficit, l’animale attinge alle sue riserve corporee, principalmente al tessuto adiposo”.

“Tuttavia”, proseguono i tecnici dell’Inra, “nelle vacche con la migliore produzione di latte, il bilancio energetico negativo ha un forte impatto sulla loro capacità di riprodursi. In effetti, il deperimento massivo del loro tessuto adiposo porta ad un aumento della concentrazione di acidi grassi liberi nel sangue che è dannoso per le funzioni ovariche e per la qualità degli ovociti”.

Per di più, questa massiccia “richiesta” di risorse nutrizionali comporta una rielaborazione della struttura del tessuto adiposo e del suo contenuto in ormoni chiamati adipocitochine. Ora, se da una parte è ormai assodato che il tessuto adiposo è un vero tessuto endocrino, da un’altra il ruolo delle adipocitochine nelle interazioni tra metabolismo e riproduzione nelle mucche è ancora sconosciuto.

In sostanza, “Prolific” ha permesso un importante passo avanti nella comprensione di questi meccanismi. Con esso i ricercatori hanno cercato di identificare i geni e le vie metaboliche del tessuto adiposo, che variano in base al livello di deficit del bilancio energetico nel periodo che precede il parto delle mucche primipare. L’uso di tecnologie di sequenziamento di nuova generazione ha permesso agli studiosi di caratterizzare tutti gli Rna (acido ribonucleico) del genoma del tessuto adiposo di questi animali che hanno ricevuto un’elevata o bassa assunzione di energia alimentare per ottenere diversi livelli di deficit di equilibrio dell’energia.

Le analisi effettuate dal gruppo di ricerca hanno infine confermato l’alterazione dell’espressione dei geni correlati al metabolismo lipidico. Inoltre, hanno permesso di comprendere la funzione di una determinata proteina (la CCL21), in grado di modificare “in vitro” la secrezione e la proliferazione del progesterone nelle cellule ovariche della vacca. “Le sue variazioni”, hanno sottolineato i responsabili della ricerca, “potrebbero aiutare a spiegare una parte importante delle ragioni che sono alla base dell’infertilità associata ai disturbi metabolici”.

7 ottobre 2019

Per approfondire, sul sito web dell’Inra è disponibile un articolo, in lingua francese