Per le popolazioni dell’arco alpino il patrimonio alimentare rappresenta un forte elemento identitario che va oltre il cibo, comprendendo paesaggi produttivi, saperi tradizionali legati a tecniche di produzione, abitudini di consumo, riti e – non ultima – la trasmissione di pratiche e di saggezze antiche e in parte disperse, ma non ancora perdute né tantomeno superate.
A causa del progressivo spopolamento, della migrazione delle giovani generazioni, dell’invecchiamento della popolazione e – non ultima – della globalizzazione, il Patrimonio Alimentare Alpino è a rischio di scomparsa.
Per scongiurare questa prospettiva, il Polo Valposchiavo (che, lo leggiamo sul loro stesso sito web, è “centro di competenza per la formazione continua e l’accompagnamento di progetti di sviluppo”) si è reso capofila del progetto AlpFoodWay, coinvolgendo quattordici partner e trentanove osservatori in sei Paesi alpini, tra cui l’Italia, “proponendo” – dicono gli organizzatori – “un approccio interdisciplinare, transnazionale e partecipativo al Patrimonio Culturale Alimentare Alpino”.
“AlpFoodway”, è questo l’impegno del Polo Poschiavo, “punterà a creare un modello di sviluppo sostenibile per le aree alpine periferiche, basato sulla conservazione e sulla valorizzazione del patrimonio culturale alimentare, ma anche sull’implementazione di strumenti di marketing e di governance innovativi. Contribuirà, inoltre, a far emergere un’identità alpina transnazionale basata sui valori condivisi espressi attraverso il patrimonio alimentare”.
A Gerola Alta una comunità del Pan Ner. Non quella del formaggio?
Incuriositi da tutto ciò, avvicinatici ad una delle interessanti iniziative di AlpFoodWay attuate in questi ultimi giorni, vale a dire alla recente festa dedicata ai “Pan Ner – I Pani delle Alpi” (svoltasi, si pensi, in cento realtà alpine in Svizzera, Slovenia, Francia e Italia), ci è capitato di apprezzare molto i riti e il fare – testimoniati da dotti scritti ed eloquenti video – attorno alla produzione, gestione, ed uso della farina di segale, calandoci in una di quelle entusiasmanti feste: quella di Gerola Alta, a cui proprio un bel video è stato dedicato.
Sarà per deformazione professionale forse, occupandoci più di latte che di farine, ma il solo pensiero di quella cittadina, la sola idea che lì scorra il torrente Bitto e che proprio su quelle montagne – in Valgerola – il formaggio Bitto sia nato millenni orsono, per poi essere propagato in tutta la provincia negli Anni ‘90 dall’arrivo della Dop (che ha cancellato, purtroppo, piccole realtà casearie nelle singole vallate, ndr), ci ha portato a riflettere e ad approfondire.
“È mai possibile”, ci siamo chiesti, “che in una festa sui pani di segale che si svolge a Gerola non abbia trovato spazio il formaggio (da tre anni denominato “Storico Ribelle”, per significare la totale distanza dal Bitto Dop) che lì è cultura, vita e bandiera di una comunità intera?”
“Che ruolo avrà”, ci siamo domandati, “il vero Bitto della tradizione – lo Storico Ribelle – che oggi come millenni orsono si produce (a differenza del Bitto Dop), quello senza mangimi, senza fermenti industriali, e con l’obbligo del latte di capra (spesso Orobica, che è parte di quei paesaggi montani, ndr), in questo bel progetto?”
“Possibile mai che la più fulgida comunità di resistenza casearia che ci sia, portata ad esempio nel mondo da Slow Food quale Presìdio di valori sociali e culturali, di biodiversità e di fare di donne e uomini delle Alpi sia stata dimenticata in AlpFoodWay?“
Allarmati da una simile ipotesi, siamo andati a scartabellare un’infinità di documenti inerenti il progetto del Polo Valposchiavo, sino ad arrivare a quelli relativi al Final Community Forum, evento ufficiale dell’iniziativa, in calendario a Milano il 29 ottobre prossimo.
Purtroppo, leggendo e rileggendo il programma di quel Forum il nostro allarme si è rivelato fondato: nessuna traccia di Storico Ribelle in tutta la giornata di lavoro, ma anche e soprattutto un intervento su un formaggio prodotto in un Alpe della Valgerola – l’alpe Culino, gestito dall’Ersaf, l’Ente Regionale lombardo per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste – i cui caricatori non sono obbligati ad alimentare solo ad erba gli animali, né a caseificare senza fermenti né a far pascolare capre per usare il loro latte.
Come interpretare tutto ciò? Come il frutto di una svista degli organizzatori (sono a 65 km di distanza e non possono non sapere quale formaggio, tra Bitto e Storico, andrebbe sostenuto, e “salvato“, ndr)? O forse come l’esito dell’ingerenza di una politica incline più a sostenere i produttori politically correct e meno i ribelli? E infine, delle sorti della capra Orobica, e dei paesaggi che essa caratterizza, davvero così poco interessa ai fautori di un così apprezzabile progetto?
21 ottobre 2019