Decenni di disinteresse – e di qualche rensponsabile incompetenza, diciamolo pure – nella gestione della zootecnia da latte (e da carne) hanno portato negli ultimi 60 anni al grave fenomeno dell’erosione genetica, causato dall’introduzione di razze alloctone – talvolta divenute invasive – ai danni di molte razze autoctone, ora in parte a rischio di estinzione se non addirittura vicine alla scomparsa (razze cosiddette “reliquia”).
Centinaia di razze autoctone che avevano impiegato migliaia di anni ad adattarsi ai loro specifici territori sono state così spazzate via dalla brama produttivista indotta dalle lobby di settore (commercianti, tecnici, venditori di seme) e dalla poco diffusa consapevolezza, da parte di molti allevatori, dei valori(*) dei patrimoni genetici in loro possesso
Questo fenomeno non ha lasciato indenni neanche i territori in cui sono stati istituiti molti parchi (almeno una dozzina nati dopo il 1990), essendo stata colpevolmente attuata ovunque – e in particolare in quegli areali – un’idea di conservazione non dell’universo-territorio, includente la specie umana che lì operava da sempre (e dei vegetali e degli animali da essa governati) ma solo della sua dimensione “selvatica”.
Se l’approccio discriminatorio tra selvatico e non-selvatico governa e discrimina ancor oggi la gran parte delle realtà rurali (fateci caso: il “lupo”, pur essendosi riprodotto a dismisura, vale nell’immaginario collettivo più della pecora, ndr), in questi ultimi anni si è palesato un fattore che almeno ufficialmente spinge verso il recupero delle razze locali: il fattore dei finanziamenti pubblici che l’Unione Europea ha stanziato per dire di voler salvare la biodiversità.
Alle non poche razze locali che negli ultimi anni hanno usufruito di interventi di tutela e valorizzazione, si aggiunge ora una capra abruzzese, di cui davvero poco si sapeva sinora. Bene, quasi a sorpresa (ne aveva accennato due anni fa l’Izsler di Teramo) si scopre quindi che tra le risorse del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga c’è anche lei: la capra di razza teramana. A rivelarlo, all’inizio della scorsa settimana, è stato il presidente del parco stesso, Tommaso Navarra, illustrando l’avvio di un progetto, denominato per l’appunto “Capra teramana: nuove opportunità da un’antica razza autoctona”.
«La tutela della biodiversità e del territorio», ha sottolineato Navarra, «e la conservazione delle buone pratiche agro-silvo-pastorali, da sempre presenti e con sapienza conservate dalla comunità identitaria del Parco, possono e devono utilmente coesistere, rappresentando il punto di sintesi migliore della funzione storica di un Parco». È pur certo però che se questo fosse stato capito negli anni ‘90 (il parco fu istituito nel 1991) le prospettive sarebbero state ora ben più rosee di quanto possano essere.
“L’iniziativa”, si legge su Parks.it – il portale web di Federparchi – “muove proprio su questo assunto, con l’intento di creare una positiva sinergia tra obiettivi di salvaguardia e possibilità di diversificazione del reddito da parte degli operatori”. Operatori all’interno dei cui allevamenti però, prevalgono purtroppo razze come la Saanen e incroci dovuti al meticciamento con altre razze, tra cui la garganica.
Un’iniziativa avviata nel 2017 dall’Izsler di Teramo
Nel maggio di due anni fa, a seguito della manifesta disponibilità di fondi per il recupero delle razze autoctone da parte dell’Unione Europea, l’Izsler (Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise) di Teramo, “vista la valenza genetica della capra di razza teramana e al fine di promuoverne la ricostituzione numerica”, affidò (qui il bando) a titolo gratuito ad alcuni allevatori dei nuclei caprini di teramana composti da due becchi e da un minimo di otto femmine, nel tentativo di avviare il recupero della razza.
Ricevendo quei capi, gli allevatori si impegnavano a rendere disponibili in qualsiasi momento gli animali stessi per eventuali attività di studio e a non alienare gli stessi per i primi due anni (fatta eccezione per situazioni motivate di particolare gravità), concedendo ai tecnici dell’istituto l’accesso ai siti di ricovero degli animali.
Il lancio del progetto ora attuato manifesta il buon andamento delle attività svolte in questo biennio e punta a valorizzare e a incrementare numericamente la razza anche attraverso la valorizzazione dei prodotti da essa ottenibili, in modo da rendere l’allevamento economicamente sostenibile.
A dare al progetto ulteriore prestigioso e attendibilità è stato il coinvolgimento della Facoltà di Bioscienze dell’Università di Teramo, forte della sua esperienza nel campo delle produzioni di qualità.
Cosa prevede il progetto
Gli allevatori giunti in posizione utile in graduatoria, a seguito di avviso di manifestazione d’interesse pubblicato dall’ente-parco – supportati dai tecnici dell’area protetta e dai ricercatori dell’università – si prefiggono l’ambizioso obiettivo di dimostrare quanto le produzioni di qualità derivate da questa antica razza, consentano di soddisfare sia le esigenze di mercato che di conservazione della biodiversità zootecnica.
Come per tutti i tipi genetici autoctoni, anche la capra teramana deposita il suo futuro in mano alle cosiddette “comunità identitarie” del parco, nell’ambito di una società sempre più attenta e legata alle tipicità e alle caratteristiche storico-culturali del territorio.
Sul piano del “fare”, al momento, saranno tre gli allevatori coinvolti – tutti in provincia di Teramo – ognuno con l’obiettivo di incrementare di alcune decine di capi la consistenza della razza.
Per avviare il progetto, l’Ente Parco ha messo a disposizione:
- fino a 15mila euro per l’acquisto di capre di razza teramana
- 5mila euro per lo studio e le analisi chimico-fisiche dei prodotti derivati dal latte dalla carne di capra teramana e per la verifica dell’appartenenza alla razza dei nuovi capi acquistati (controllo genetico e misurazioni biometriche)
I fautori del progetto auspicano l’innescarsi di un effetto volano, con l’incremento del numero di allevatori coinvolti.
21 ottobre 2019
(*) dal portale web “Agraria.org”: “La salvaguardia delle razze autoctone dovrebbe essere garantita solo per il mantenimento della biodiversità, unica arma contro le avversità e le variazioni climatiche che in certe occasioni possono distruggere intere specie animali. Perdere una razza è privarsi di una indispensabile materia prima per rispondere alle esigenze future. La variabilità genetica infatti permette il miglioramento delle razze che altrimenti rimarrebbero “fossilizzate”. Cercare di evitare l’estinzione di razze è opera di “pubblica utilità”. Una razza è infatti anche un frammento di storia e cultura per la gente dell’area di allevamento”