Quale latte consumi? Quale formaggio? Un non-articolo per capire da che parte stare

Una vacca di razza Frisona Italiana – il simbolo identitario della zootecnia intensiva – durante una mungitura – foto Pixabay©

Questo non è un articolo bensì un non-articolo: in dodici anni di pubblicazioni è il primo non-articolo di Qualeformaggio. Questo è un atto di denuncia, un grido d’allarme per ogni cittadina e cittadino intenzionati a portare del cibo sano sulla propria tavola, del cibo prodotto nel rispetto dell’ecosistema. In 60 anni di industrializzazione, il mondo agrozootecnico è stato violentato, forzato, messo in ginocchio e umiliato da chi ha preteso di trarne benefici per sé, lasciando il conto da pagare alla comunità intera.

L’opera di sopraffazione che è stata generata dal sistema agrozootecnico moderno ha pensato a tutto, senza tralasciare la comunicazione, ovviamente. Gli abusi perpetrati nei confronti dell’ambiente, degli animali e di chi quel cibo lo acquista per nutrirsene sono stati nascosti dietro una spessa coltre di nebbia fatta di menzogne, depistaggi, strategie occulte, impalpabili collusioni tra i centri media e i centri di potere: le lobby dei mangimi, delle commodity, dei farmaci, degli integratori, delle produzioni intensive, della grande distribuzione organizzata.

Dopo tanto dolore, derivante dalla consapevolezza di cosa sia diventata la zootecnia intensiva, un’immagine che rasserena: quella di un margaro con il latte delle sue vacche, che – non essendo sfruttate e mangiando erba e fieno – vivranno anche 16 se non 18 anni. È questa la zootecnia da sostenere – foto di Mihail Macri© – UnSplash

Giorno dopo giorno sono stati spacciati per normalità abusi di ogni genere; tra di essi due, tanto intendere come vanno le cose:

  • la manipolazione genetica di vacche specializzate per produrre sempre più latte, che nel corso del tempo son passate dai 14 anni di aspettativa di vita (1960) agli attuali 4 (poi via nell’inceneritore, tanto poco e mal in arnese è ciò che si ricaverebbe oggi da una vacca “intensiva” a fine carriera: pessima carne e una fisiologia schiantata dalla sofferenza);
  • la costrizione a vivere quella vita di sofferenze sempre recluse all’interno di una stalla, senza mai calpestare un prato, e tutte le sofferenze che un’alimentazione contro-natura potevano portare.

Introdurre mais in qualsiasi forma e misura in un apparato ruminale con l’obiettivo di incrementare – sino a raddoppiarla – la produzione di latte, è un crimine verso l’animale, quindi verso la natura, è un atto di violenza che da 60 anni si ripete, giorno dopo giorno, su milioni di povere bestie. Una violenza che in primo luogo genera danni all’animale stesso: dalle mastiti alle zoppìe, dall’ipofertilità alla chetosi, all’acidosi ruminale. Di tutto questo, fatte salve rare eccezioni, nessun giornalista si è mai preoccupato, negando alla gente la buona informazione che ognuno di noi avrebbe diritto ad avere. Tutto questo per “non disturbare il conducente”, ovvero per asservire logiche di mercato subdole, che ci scorrono sotto il naso in forme per lo più dissimulate, impalpabili, irriconoscibili.

Tutto ciò è così grave e paradossale da meritare in ognuno di voi che da questo si voglia difendere, una semplice sosta, un respiro profondo, e una riflessione: se è vero com’è vero che “i ruminanti sono erbivori ed erba debbono mangiare” (è il payoff della nostra testata: lo avrete di certo letto ma forse non ancora interiorizzato), ogni alimentazione diversa da quella, ogni forzatura della bestia, della sua fisiologia, della sua vita, è un crimine di cui non dobbiamo essere complici.

L’articolo su Fai.Informazione: scritto da un Professore Universitario, parla di “rumini che dovrebbero funzionare meglio”, senza neanche accennare che gli stanno dando da digerire mais al posto dell’erba. Perché mai quell’organo – così complesso e perfettamente funzionante se ben alimentato – ha mille problemi nel digerire mais? Voi che dite: mettereste mai benzina nella serbatoio della vostra auto diesel?

Chiedete ad un mandriano di vacche rustiche quanto producano le sue bestie: mediamente la metà o un terzo rispetto ad una “macchina da latte”; poi chiedetegli quanti anni vivano: mediamente quattro volte di più rispetto ad una vacca iperproduttiva. Fategli infine un’ultima domanda, sul costo dell’alimentazione della sua mandria: enormemente inferiore a quello del collega che le “spinge” a suon di mais. Per non parlare del peso (economico, ambientale, fisiologico) delle cure per malattie croniche, degli integratori, dei vari consulenti, e dello stato in cui la psiche di un allevatore – che viva 365 giorni all’anno in una bolla di malessere generale – possa versare.

Concludete la lettura fuori dal nostro sito, adesso, poi ognuno tiri le proprie somme: leggetevi questo breve (e agghiacciante) articolo (lo ha scritto un docente universitario) e capirete – se non lo avete già capito – da che parte dovrete stare e quanto forte sarà necessario lottare, d’ora in avanti.

12 ottobre 2020