C’è un articolo da qualche giorno su Forbes, che – per il peso di chi lo ha scritto e per la gravità del messaggio che veicola – dovrebbe dare la sveglia a quanti, producendo carne e latte, si ostinino a credere ancora che questione climatica ed emergenze ambientali possano essere prese sottogamba.
Il pezzo, pubblicato venerdì scorso, 4 marzo, e intitolato “Why The Food Sector Must Respond To The COP26 Challenge” (“Perché il settore alimentare deve rispondere alla sfida della Cop26”) si rivolge principalmente a chi ancora pretenda di allevare animali in maniera intensiva, senza far nulla per un cambiamento che ormai non è più procrastinabile.
L’autore dell’articolo, firma autorevole dello scenario economico e finanziario mondiale, è Jeremy Coller, chief investment officer di Coller Capital e presidente della rete di investitori Fairr.
Coller si dice incredulo che – a quattro mesi dalla Cop26 di Glasgow sui cambiamenti climatici – la gran parte degli operatori zootecnici non abbia assunto nessun correttivo al proprio modo di operare, e definisce “la mancanza di azione da parte dei leader del settore, sconcertante”.
Ad avvalorare le tesi addotte, il magnate inglese riferisce dati a dir poco sorprendenti. Dati ottenuti da una ricerca condotta da Fairr Initiative, rete di investitori che opera sulla consapevolezza dei rischi e delle opportunità ambientali, sociali e di governance, determinati dalla produzione intensiva di bestiame. Bene, anzi male, perché lo studio di Fairr dimostra che l’82% dei produttori industriali di carne, latte e derivati – sessanta aziende monitorate nel mondo – non tiene neanche traccia delle proprie emissioni di metano. E che nessuno di essi ha in programma di ridurre la produzione di gas serra.
“L’impegno che oltre cento leader mondiali riuntiti a Glasgow hanno preso”, aggiunge Coller, “di interrompere entro il 2030 il disboscamento (per produrre soia, ndr) richiede un’azione globale da parte dei produttori di carne, latticini e pesce, ma la ricerca di Fairr ha rilevato che solo il 7% dei primi sessanta ha una politica per mitigare la deforestazione”. E questo perché proprio la soia è ancora vista come un alimento insostituibile dalla gran parte degli operatori coinvolti.
In sostanza, e qui viene il monito più grave per chi ancora creda di poter produrre come sempre ha fatto, “il settore è tristemente impreparato a mettere in atto le azioni necessarie, e rischia una raffica di regolamentazione per costringerlo ad agire”. Vale a dire misure sanzionatorie che risulterebbero essere per molti – se non per tutti – l’ultimo fatale colpo di una poco nobile parabola esistenziale.
L’articolo, raggiungibile cliccando qui, si addentra poi in altri dettagli, indicando le azioni-chiave che permetterebbero – se non altro – di salvare il salvabile.
7 marzo 2022