La Campania del formaggio – o per meglio dire il mondo della ricerca che in quella regione supporta i produttori caseari artigianali e di azienda agricola – sente forte la necessità di innovazione. Per attuarla è orientato a trovare spunti e soluzioni nel mondo delle piante e delle erbe. Sono ben due infatti i progetti presentati in questi ultimi giorni a cercare nel mondo vegetale una possibile innovazione: uno, denominato Formlife, riguarda i formaggi vaccini, l’altro, che qui presentiamo, concerne la filiera caprina.
Per maggior precisione, questo secondo progetto è orientato anche alla produzione di cosmetici. Nel presentarlo, lunedì scorso, 6 luglio, i suoi fautori hanno sottolineato che “il progetto nasce dal fabbisogno di innovazione del settore lattiero–caseario regionale e dalla crescente sensibilità verso la salvaguardia e valorizzazione della biodiversità” e che temi come “i rischi di spreco, la scarsità di risorse e l’inquinamento, più che mai attuali, creano un intreccio indissolubile tra etica e nuove produzioni”.
Alla base di questo progetto, spiegano “vi è la ricerca di metodi, approcci e valori in armonia con gli equilibri ambientali”. Lo dimostra una delle dimensioni centrali dell’attività messa in campo, all’insegna di un’economia circolare, in cui – come nelle abitudini contadine d’un tempo, non del tutto tramontate e lontane dal consumismo – gli scarti diventano risorse e input di successo.
“Ciò che un tempo era appannaggio dei lavoratori della terra e delle piccole economie domestiche”, si legge infatti nella presentazione, “oggi assurge a una visione consolidata che vuole diventare Metodo”.
Erbe aromatiche alla base del progetto
Un esempio lampante di questo è individuabile nel partner produttivo del progetto, l’azienda agricola Caselle di Pontecagnano, la cui filiera comincia con la raccolta delle erbe aromatiche che, confezionate a marchio proprio, vanno ad alimentare il grande mercato del fresco al dettaglio, e in seconda istanza, sono cedute ai confezionatori.
“Quando le erbe vanno a fiore”, spiegano gli esperti, “ed esprimono il massimo potenziale dell’aroma (tempo balsamico), la produzione si sposta sul “semi-dry”, un prodotto leggermente umido con due barriere che lo mantengono stabile: l’acqua libera e l’acidità”.
A questo punto la parte pregiata della pianta viene raccolta, per essere poi essiccata con due distinti metodi: l’aria fredda e il microonde sottovuoto. Quest’ultima essiccazione è realizzata attraverso il prototipo di una macchina innovativa, e consente di ottiene un prodotto di grande qualità, che conserva in larga parte l’aroma e il colore del fresco.
Dunque, una volta utilizzata la parte più nobile della pianta per il “semi-dry”, si innesca il meccanismo virtuoso con un duplice vantaggio per ciò che resta: la rimanente parte delle foglie della pianta, ancora ricche di sostanze aromatiche, viene utilizzata per alimentare le capre coinvolte nel progetto, che produrranno un latte aromatizzato e arricchito in biomolecole.
La restante biomassa vegetale, non utilizzata o non raccolta, verrà poi trinciata e lasciata essiccare sul terreno fresato; sarà quindi utilizzata come ammendante per l’apporto di sostanza organica nel suolo: “un’innovazione nell’innovazione”, secondo i responsabili del progetto. Più probabilmente una logica conseguenza dell’operare in chiave agroecologica.
Ma attenzione, perché quello di Caselle non è l’unico esempio di economia circolare incluso nel progetto: “Presto, spiegano i responsabili, “vi parleremo di come ottimizzare il siero del latte di capra, evidenziando vantaggi dell’uso che mettono d’accordo sostenibilità ambientale e produzione”.
Conclusioni
In sostanza, i benefici derivanti da processi virtuosi che riducono l’impatto ambientale sul pianeta, sono frutto di una ricerca attenta dei parametri su cui intervenire e di un controllo meticoloso di tutte le fasi di lavorazione, e contribuiscono a restituire un bilancio di risorse finalmente equilibrato.
Concludiamo con due note in qualche modo dovute. La prima riguarda i soggetti – enti e aziende – coinvolti, che sono il Crea – Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria, il Centro di ricerca Zootecnia e Acquacoltura (che ne è capofila), l’azienda agricola Caselle di Pontecagnano, la Fattoria del Gelso Bianco di Montano Antilia, l’Università degli Studi di Salerno, la Di-Farma e la Printing Agency.
L’altra nota riguarda la denominazione che è stata data al progetto (normalmente da noi citata all’inizio e più volte nell’articolo). Denominazione che in questo caso abbiamo ritenuto opportuno indicare qui, nelle ultime righe, se non altro per il rispetto che portiamo ai nostri lettori, e anche perché una critica – tra l’altro non sostanziale e del tutto marginale – a chi ha voluto e realizzato il progetto ci sembrava opportuno lasciarla nelle “note a margine”.
“Caprini erbosi” – questa l’infausta denominazione scelta – oltre a “suonar male” quanto più non si potrebbe, cela in sé qualche limite e insidia: di certo non rende merito alla complessità e alla validità del progetto, verosimilmente innesca improbabili e fuorvianti visioni (si cerchi in Treccani e altrove: “erboso” sta per “ricoperto d’erba” e nulla più) e infine genera confusione in chi, non avvezzo alle produzioni casearie, dovesse associare quella denominazione all’immagine dei formaggi legati al progetto stesso.
Accadde più di dieci anni fa (e ancora se ne pagano le conseguenze) che qualcuno (chi? lo stiamo ancora cercando!) parlò o scrisse di “formaggi erborinati” riferendosi non ai “blue” bensì agli aromatizzati con erbe. Da allora, di tanto in tanto, qualche persona si dimostra ancora vittima, purtroppo, di quell’errore, seminando ignoranza, confusione e approssimazione.
Beh, se in futuro qualcuno cominciasse a chiedere “formaggi erbosi” a destra e manca, in quel caso sì, sapremmo di certo a chi imputare la genesi del “problema”.
13 giugno 2022