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Uno studio, pubblicato dalla rivista “Nature Food” l’8 dicembre scorso, e condotto da ricercatori della Lincoln University di Lincoln, Nuova Zelanda, della University Park della Pennsylvania (Usa) e dall’Agrosystems Research, nei Paesi Bassi, ripropone le differenze tra la produzione di latti e derivati e il relativo impatto ambientale, prendendo in considerazione e confrontando tre diversi modelli agrozootecnici: al pascolo, in stalla e “ibrido”.
La ricerca, intitolata “Limiting grazing periods combined with proper housing can reduce nutrient losses from dairy systems” (in italiano “La limitazione dei periodi di pascolo combinata con una sistemazione adeguata può ridurre le perdite di nutrienti dai sistemi lattiero-caseari”) si ripropone di valutare le tipologie più diffuse, vale a dire “sistemi di pascolo in cui il bestiame è all’aperto per la maggior parte dell’anno (≥9 mesi)”, “sistemi ibridi, che utilizzano una combinazione di ricoveri e terreno sufficiente per sostenere alcuni mesi (3-8) di pascolo” e “sistemi stabulati, con minimo accesso al pascolo (≤2 mesi)”.
Lo studio prende in considerazione l’aumento delle produzioni lattiero-casearie previsto a livello internazionale (+1,6% nel periodo 2020-2029), sottolineando che “la crescente domanda globale sarà ottenuta combinando l’espansione dei terreni utilizzati per l’industria lattiero-casearia e una maggiore intensificazione delle attività lattiero-casearie esistenti, insieme a guadagni di efficienza produttiva”. “Tuttavia”, proseguono i ricercatori, “vi sono crescenti preoccupazioni che alcuni sistemi di produzione lattiero-casearia intensiva possano danneggiare l’ambiente riducendo la qualità dell’acqua, compromettendo il benessere degli animali e aumentando le emissioni di gas serra”.
La percezione dei consumatori suggerisce che i sistemi di allevamento estensivo offrano prestazioni migliori rispetto ai sistemi stabulati, e questo in base a determinati parametri di “sostenibilità”, tra cui vengono indicati la salute e il benessere degli animali, la riduzione della manodopera, la redditività e le perdite di nutrienti nell’aria e nell’acqua.
Oltre ad alcuni benefici per la salute umana, questi parametri sono stati combinati per dedurre che alcuni sistemi lattiero-caseari basati sul pascolamento siano più “rispettosi dell’ambiente e del benessere degli animali” rispetto ad altri sistemi, dal punto di vista del consumatore, e quindi utilizzati per connotare i prodotti “premium”.
“Tuttavia”, spiegano gli autori di questa ricerca, “esistono pochi dati empirici a sostegno di queste affermazioni rispetto alle perdite di nutrienti nell’acqua, specialmente nei sistemi intensivi in cui il potenziale di perdita di nutrienti è maggiore rispetto ad altri sistemi di allevamento”.
“Con una maggiore attenzione alla produzione di latte e alle perdite di nutrienti”, prosegue lo studio, “ora sono disponibili molti più dati per confrontare i diversi sistemi. In questa analisi, quindi, abbiamo mirato a determinare se esistono differenze tra i tre sistemi di produzione lattiero-casearia”, presi in esame, “in base alla durata del pascolo all’aperto, con particolare attenzione alle loro perdite di azoto (N) e fosforo (P) come indicatori della qualità delle acque”.
“Tuttavia”, spiegano gli studiosi, “riconosciamo che i dati empirici, provenienti da studi globali, possono essere variabili, essendo influenzati dalle condizioni biofisiche e dalle decisioni di gestione locale. Pertanto, abbiamo anche modellato la probabilità di perdite di N e P dai comuni sistemi di allevamento lattiero-caseario rappresentativi di quelli utilizzati in tre principali giurisdizioni produttrici di latticini all’interno dello stesso bioma terrestre (Nuova Zelanda, Paesi Bassi e Stati Uniti nord-orientali). Queste erano chiamate fattorie “vere”. Abbiamo confrontato queste aziende agricole reali con aziende agricole ipotetiche rappresentative dei due sistemi meno comuni per creare output per i tre sistemi di produzione in ciascuna giurisdizione”.
Lo studio prosegue sfatando in qualche modo il mito del pascolamento come bene assoluto, sottolineando i vari “dipende” insiti nelle tre diverse tipologie di allevamento: in gioco ci sono la sostenibilità ambientale e il benessere animale, sempre che ogni aspetto di ciascun sistema produttivo venga correttamente soppesato. Una domanda su tutte: le superfici disponibili sono adeguate ad allevare in maniera estensiva? Se non lo sono non sarà forse conveniente optare per un sistema “ibrido”?
Domande a cui l’allevatore potrà dare una risposta se supportato da tecnici competenti, in grado di interpretare correttamente i desiderata del cliente, giungendo ad impostare al meglio la produzione aziendale, combinando in maniera equilibrata la produttività e il reddito, senza mai perdere di vista l’impatto ambientale in tutte le sue sfaccettature.
19 dicembre 2022
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* La parola all’Agronomo Rosa Tiziana Procopio
Nella scelta e nella “ristrutturazione” di ogni azienda agricola, noi tecnici di settore – assieme all’imprenditore – cerchiamo di definire e progettare il migliore assetto aziendale possibile. E questo per una efficiente gestione delle attività, senza tralasciare la componente tecnica e la conoscenza scientifica che nel settore sono state raggiunte e per le quali ha ragione di esistere la figura dell’agronomo.
Partendo dall’idea imprenditoriale, soprattutto in un sistema zootecnico, con la necessità di far coesistere e rendere funzionali la componente agricola con quella dell’allevamento, non è banale la comprensione e gestione anche del fattore ambientale.
Purtroppo nel tempo, l’intensificazione dei modelli zootecnici e la quantità di produzioni intensive, hanno segnato il settore: ad oggi, ogni imprenditore agro-zootecnico che intenda mantenere in attività la propria azienda agricola, deve in qualche modo considerare di innovare il proprio sistema di allevamento verso la sostenibilità ambientale e valutando anche l’impronta ecologica dello stesso.
Se consideriamo sistemi storicamente noti come l’allevamento al pascolo e quindi metodi completamente estensivi di allevamento (bovino, ovino, suino, ecc), riusciamo a comprendere bene quella che sia la parte “sostenibile” del sistema produttivo: gli animali allevati allo stato brado contribuiscono al mantenimento della biodiversità ambientale, mantengono gli appezzamenti forestali ripuliti della parte secca, evitando il rischio d’incendio degli stessi, oltre alla tutela del benessere animale.
Tuttavia, oltre alla sostenibilità ambientale, ciò che abbiamo da considerare, sono le superfici aziendali spesso non abbastanza estese da consentire un corretto carico di bestiame per ettaro: si consideri che per la tutela di un agroecosistema alla massima efficienza, è ottimale non superare un bovino per ogni ettaro di pascolo. La superficie aziendale spesso viene suddivisa in una parte agricola di produzione erbacee per i pascoli in rotazione, nonché per la produzione di eventuali integrazioni in periodi di necessità, pertanto il carico animale viene mantenuto con difficoltà.
Non meno importante è la necessità di impattare sul suolo con deiezioni animali proporzionate alla tolleranza del terreno su cui decidiamo di praticare il pascolamento, senza influire negativamente sulle caratteristiche ambientali di suolo e acqua: non solo dobbiamo considerare di tutelare ambiente e animali, in termini di emissioni gassose e benessere animale: dobbiamo anche mantenere fede alla tutela del paesaggio considerando anche l’impronta che lo stesso animale può determinare tramite il pascolamento.
Il confronto fatto in questo studio scientifico, sui tre diversi sistemi di allevamento – intensivo, brado, ibrido – ci consente una riflessione non banale sul tema, che come detto, deve mettere insieme più frammenti di un sistema complesso “azienda agricola” disegnato ad hoc da imprenditore e agronomo: può un sistema brado essere migliore di un sistema intensivo? E poi, come non considerare la componente economica, dal punto di vista dell’imprenditore, quando ci approcciamo a scegliere la metodologia produttiva? Siamo certi che l’aspetto agroambientale debba essere preponderante?
La verità è che non vi sono risposte semplici – e meno che mai standardizzate – a queste domande. Dallo studio stesso, si evince che i contesti posti a confronto, seppure affini per molte caratteristiche, hanno tra loro differenze che determinano la singolarità di ogni sistema produttivo: per area geografica, per mercato di riferimento, per condizioni climatiche, per dimensioni aziendali.
In un contesto pedemontano, ad esempio, il pascolo e/o un sistema ibrido di allevamento, hanno ragione di esistere maggiormente che non in un contesto pianeggiante, laddove le superfici più favorevoli e la condizione climatica favoriscono un sistema brado integrale, pur tenendo presente quali siano le dimensioni aziendali e le possibilità dell’imprenditore.
Tuttavia, in un ambiente pianeggiante, in Italia per esempio, avremo da monitorare le deiezioni animali e il loro impatto sul terreno quando, nel periodo invernale la possibilità di distribuzione delle stesse sul suolo viene ridotta dalla normativa: un sistema intensivo può consentire una efficiente gestione e raccolta delle stesse; per contro, la riduzione dei capi di bestiame a fronte di una maggiore estensione delle superfici al pascolo potrebbe favorire la qualità del prodotto, il dimensionamento del carico di bestiame nonché delle deiezioni animali su di esso, tuttavia a scapito di un mercato dove (per esempio nella Pianura Padana, in Italia) le produzioni lattiero-casearie sono per lo più derivanti da allevamenti intensivi e di grandi dimensioni, pertanto competitive.
Ecco allora che torniamo al concetto iniziale: si definiscono le caratteristiche progettuali azienda per azienda, paesaggio per paesaggio e mercato per mercato, assieme al consulente che aiuta l’imprenditore a incrociare esigenze e ottimizzazione per una riuscita della propria idea imprenditoriale.
Come lo stesso studio dimostra, in agrozootecnia non si tratta sempre e solo di dare risposte alla domande, bensì, partendo dalle tante questioni che è lecito porsi, farsi guidare da chi ha competenza, per conseguire un’idea e un progetto realmente sostenibili”.
di Rosa Tiziana Procopio
Dottore Agronomo
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