I trattamenti termici tradizionali – pastorizzazione, alto-pastorizzazione e uht – utilizzati nel settore lattiero-caseario sono caratterizzati da elevati consumi di energia elettrica e di acqua: per questo principale motivo l’industria guarda al mondo scientifico in attesa di nuove prospettive, che consentano una maggiore sostenibilità ambientale e l’auspicata riduzione dei costi di produzione.
A studiare l’applicazione della tecnologia IR – a raggi infrarossi – sul latte è un team di ricercatori italiani appartenenti a Università di Bologna (Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie), Asl Scaligera di Verona (Servizio Veterinario Pubblico, Sezione Sanità Animale), Università di Milano (Dipartimento di Medicina Veterinaria e Scienze Animali) e Università di Padova (Dipartimento di Medicina, Produzioni e Salute Animale), il cui studio “Effect of infrared technology on the behavior of Listeria monocytogens, Salmonella spp. and Enterobacteriaceae in homogenized raw vaccine milk: preliminary results” (qui la traduzione automatica fornita da Google Translate: “Effetto della tecnologia a infrarossi sul comportamento di Listeria monocytogens , Salmonella spp. ed Enterobacteriaceae nel latte vaccino crudo omogeneizzato: risultati preliminari“) è stato pubblicato mercoledì scorso, 15 maggio, sulle pagine di “Page Press Journal”, the “Italian Journal of Food Safety”.
La tecnologia a raggi infrarossi offre certamente all’industria del latte dei vantaggi, in termini di efficienza energetica e di sostenibilità ambientale, ma quel che lo studio vuole investigare sono anche – per non dire soprattutto – gli aspetti sanitari del trattamento, in particolare la sua capacità di un’attivazione di agenti patogeni, tra cui i batteri del genere Listeria (listeria monocytogenes, ecc.) e i batteri appartenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae (escherichia coli, salmonella, shigella, ecc.).
I risultati preliminari dello studio, spiegano i ricercatori, “indicano che il trattamento IR riduce efficacemente la carica microbica, raggiungendo livelli di inattivazione paragonabili ai metodi di pastorizzazione convenzionali e che il trattamento mantiene i livelli di pH del latte, suggerendo un’alterazione minima della sua composizione”, ma aggiunge anche che “sono necessarie ulteriori approfondimenti per esplorare l’intera portata del trattamento IR sull’efficacia igienico-sanitaria del latte, esplorando in modo approfondito la tecnologia IR per valutarne appieno l’applicabilità e l’integrazione nelle pratiche di lavorazione dei latticini”.
Contaminanti da inattivare per sicurezza e conservabilità del prodotto
Come ben sappiamo, il latte destinato al consumo umano necessita di trattamenti post-mungitura per prevenire sia l’inattivazione che la proliferazione di microrganismi contaminanti, che potrebbero compromettere sia la sicurezza che la conservabilità del prodotto.
“Tra tutti i trattamenti termici del latte sinora adottati” (a bassa temperatura per lungo tempo, vale a dire a 63°C per 30 minuti; ad alta temperatura per breve tempo, cioè a 72°C per 15 secondi; e ad altissima temperatura, ovvero tra i 138ºC e i 145°C per 2 secondi), sottolineano gli autori dello studio, “i trattamenti termici riconosciuti dal Regolamento della Commissione 853/2004 sono la pastorizzazione e la sterilizzazione (Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione Europea, 2004), ma le industrie lattiero-casearie potrebbero utilizzare combinazioni alternative di tempo e temperatura associate ad altri trattamenti”. “Nel regolamento” infatti “si stabilisce che l’efficacia del trattamento è da valutare, per la pastorizzazione mediante inattivazione della fosfatasi alcalina, e per la sterilizzazione mediante la stabilità del prodotto dopo incubazione per 15 giorni a 30°C in contenitori chiusi, oppure per sette giorni a 55°C in contenitori chiusi o dopo qualsiasi altro metodo che dimostri che è stato applicato il trattamento termico appropriato”.
I consumi legati ai trattamenti termici sono troppo elevati
Tutti questi trattamenti, purtroppo, relegano l’industria lattiero-casearia al vertice dei settori maggiormente energivori ed anti-ecologici per quanto concerne il consumo di acqua. Più dell’80% dell’energia consumata nei caseifici è infatti legata alle operazioni di riscaldamento, pastorizzazione, sterilizzazione, asciugatura e pulizia del processo e il 98% dell’acqua dolce utilizzata è potabile.
Parallelamente, per ridurre gli sprechi alimentari e soddisfare le diverse abitudini dei consumatori, che purtroppo preferiscono acquistare latte con una data di scadenza più lunga, esiste una rilevante propensione verso una durata di conservazione maggiore e l’uso di temperature molto elevate. A tale proposito, spiegano i ricercatori, “le tecnologie innovative o l’applicazione di queste in diverse matrici grezze di origine animale giocano un ruolo fondamentale in questo cambiamento, ma l’interazione tra uno specifico processo e uno specifico prodotto necessita di esperimenti coerenti e dovrebbe essere studiata sperimentalmente”.
“Il calore”, proseguono gli studiosi, “si trasmette per conduzione, convezione, e radiazioni. La radiazione infrarossa (IR) fa parte dello spettro elettromagnetico che si trova tra la regione visibile e le microonde e la sua lunghezza d’onda varia da 0,5 a 100 μm. La penetrazione dell’IR provoca il movimento vibrante delle molecole d’acqua e, quindi, il riscaldamento”.
IR: una tecnologia promettente che merita ulteriori approfondimenti
“Nell’industria alimentare”, proseguono i ricercatori, “la tecnologia IR è considerata promettente perché è altamente efficiente dal punto di vista energetico, consuma meno acqua ed è rispettosa dell’ambiente rispetto al riscaldamento convenzionale. Inoltre, la Food and Drug Administration ha indicato che le radiazioni IR possono essere utilizzate nella lavorazione degli alimenti. Recentemente, c’è stato un crescente interesse per l’applicabilità delle radiazioni IR alla lavorazione degli alimenti per l’inattivazione degli agenti patogeni e il potenziale utilizzo del riscaldamento IR come agente di decontaminazione in varie applicazioni alimentari è ben noto”.
“La radiazione IR”, aggiungono gli studiosi, “può essere quindi utilizzata per inibire batteri, spore, lieviti e muffe negli alimenti liquidi e solidi”. Ma “l’efficacia dell’inibizione da IR dipende dalla quantità di energia IR, dalla temperatura del cibo, dalla lunghezza d’onda, dall’ampiezza dell’onda, dalla profondità del cibo, dal contenuto di umidità, dal tipo di materiale alimentare e dal tipo di microrganismo”. Una grande quantità di variabili su cui la scienza si cimenterà ulteriormente in futuro per dare delle risposte certe e soluzioni alternative a quelle attualmente in uso.
29 maggio 2024