È uno stillicidio di giovani vite quello che si sta registrando, in Italia e non solo, causato dal batterio gram-negativo dell’escherichia coli. La lista si allunga, purtroppo: l’infezione, a decorso rapido, spesso invalidante e talvolta letale – come stavolta – lascia attoniti, sgomenti. Possibile che non si possa fare nulla per contrastare questo fenomeno che priva un numero sempre più alto di famiglie dei loro piccoli? Possibile che del cibo – in genere inteso come “buon cibo” – debba seminare handicap permanenti seri e irreversibili se non addirittura il decesso di un essere umano?
Sulla morte di bambini e ragazzi è stato scritto molto – sul vuoto enorme che una perdita del genere lascia nella comunità, sul dolore incommensurabile, e sugli aspetti psicologici per chi resta – ma ciò che più colpisce è pensare alla sofferenza di chi perde un figlio che ha generato, che ha visto nascere e crescere, e per cui ha gioito le gioie di un padre e di una madre. “La perita di un figlio o di una figlia piccoli”, sottolineano molti psicologi, “è un lutto che può indurre gravi sensi di colpa nei genitori, e che può cambiare in essi, alla radice, la percezione della realtà è della vita stessa”.
L’ultimo caso occorso nel nostro Paese – la cui notizia è stata diffusa lunedì scorso, 3 giugno, a funerale avvenuto – è quello di Elia, bimbo ligure di due anni e mezzo, deceduto il 21 maggio dopo 51 giorni di tremende sofferenze, nonostante tutte le terapie del caso, presso l’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova. Ospedale in cui era stato ricoverato il giorno di Pasquetta, quando i genitori, di ritorno da una breve vacanza in Valtellina, per la precisione a Livigno, in provincia di Sondrio, lo avevano portato, in preda a dolori conseguenti ad un attacco gastrointestinale.
Una volta ricoverato, la situazione di Elia è andata rapidamente peggiorando e manifestando in maniera chiara il quadro clinico di una grave zoonosi, con complicanze di tipo neurologico, tipiche dell’infezione da Escherichia coli. Un’anamnesi, quella del piccolo paziente, che palesa al personale medico un possibile caso di Seu: la Sindrome Emolitico Uremica, confermata una volta eseguiti tutti gli esami del caso.
Dagli accertamenti dei primissimi giorni di ricovero arrivano così le conferme dei sospetti, che permettono di individuare vettore e tempi di incubazione. Tutte le informazioni e le deduzioni di tecnici di laboratorio e personale sanitario convergono verso un alimento che ha scatenato l’infezione: un formaggio a latte crudo acquistato e consumato proprio in occasione di quella vacanza in Valtellina.
La mente dei genitori non può non ripercorrere allora il tempo passato a Livigno, scansionando gli spostamenti e gli acquisti fatti, i pasti consumati in casa e fuori casa, ed ecco che un ricordo riemerge da quei giorni: un formaggio comperato in uno spaccio, e poi consumato, anche da Elia.
Sul calvario del piccolo preferiamo non entrare in dettagli, tanto crudi apparirebbero ai più: molti gli organi compromessi – i reni, il fegato e infine il cuore – molte anche le funzioni vitali venute meno nel corso dei giorni. Il personale medico che fa tutto il possibile – dialisi, trasfusioni, farmaci, due interventi chirurgici – senza nulla tralasciare, dove tutto si dimostra vano quel maledetto martedì 21 di maggio, quando il cuore del piccolo Elia cessa battere.
Il dolore e il messaggio dei genitori
Nelle ore successive al funerale, lunedì scorso, i genitori di Elia hanno deciso di raccontare pubblicamente il loro dolore, dapprima attraverso i social media, poi ad alcuni giornalisti locali: “Sembra banale”, ha scritto il papà su Facebook, “ma certe cose quando succedono cambiano per sempre la vita, e questo stupido acronimo – Seu – ha cambiato quella del mio piccolino, la mia, quella della mamma, dei nonni, fratelli, zii e di tutte le persone che hanno avuta la fortuna di vederlo correre nel vicolo e in passeggiata nei suoi splendidi due anni e mezzo”.
“Porteremo avanti questa battaglia”, ha poi aggiunto, “spingendo affinché venga introdotto l’obbligo per tutti di apporre etichette chiare sui latticini prodotti con latte crudo. Sulle confezioni di formaggio potrebbe esserci il simbolo di un bambino piccolo barrato, per esempio, una cosa semplice e immediata”.
“Le contaminazioni possono verificarsi”, ha dichiarato poi la mamma al quotidiano ligure Igv, “e ciò che è successo è molto raro, ma è successo. E un caso è già troppo”. Un’affermazione che colpisce molto, se si pensa ai diversi altri casi occorsi in Italia e all’estero negli ultimi anni, e in particolare alla vicenda di Coredo, alle sue ripercussioni e al grido di dolore lanciato proprio alla vigilia di Pasqua da Giovanni Battista Maestri, per dire “basta a questa mattanza” e auspicare “che il caso di mio figlio sia d’insegnamento: che eviti ad altri di passare quel che stiamo passando noi”. Per chi non lo sappia o non ricordi, Giovanni Battista è il padre di Mattia, che da 7 anni è in stato vegetativo irreversibile per Seu, anche in quel caso contratta da un formaggio a latte crudo, allora come ora contaminato da Escherichia coli.
Due cose da evitare: le morti dei piccoli innocenti e la criminalizzazione dei formaggi a latte crudo
Di fronte a questo ci chiediamo quanto tempo dovrà ancora passare e quanti altri morti dovremo contare affinché tutto ciò non debba più accadere. E quanto e cosa dovremo attendere per far sì che si individui una soluzione, senza giungere – esasperati e con il peso delle troppe morti – alla criminalizzazione di un intero settore e di una tipologia casearia – quella dei formaggi che non subiscono trattamenti termici – che, se gestiti con competenza e coscienza, non avrebbero alcunché da far temere nessuno.
Su questo fronte dovremmo tutti auspicare – e chi può sollecitare – affinché i vertici di Slow Food e i loro consulenti tecnici, che tanto appassionatamente e giustamente si battono per la valorizzazione dei formaggi a latte crudo, si pongano un problema reale sinora purtroppo trascurato: stanti i valori indiscutibili (culturali, ambientali, alimentari, sociali, ecc.) di quel tipo di produzione, esiste una parte di produttori – purtroppo – che evidentemente non ha né le conoscenze tecniche né la coscienza per produrre (l’igiene è una cosa seria, la microbiologia una scienza che non si può disconoscere) e commercializzare (dopo i 60 giorni) quei formaggi.
Quest’ultimo aspetto coinvolge anche chi vende quei formaggi: gastronomi, banconisti e ristoratori che necessitano di una formazione che non di rado è inadeguata. Su questi fronti – è evidente – c’è da lavorare. E non poco. Speriamo quindi che i vertici di Slow Food siano responsabili sino in fondo, e che si mettano al lavoro sin da oggi per un domani migliore. Anche per evitare che dopodomani enti competenti e apparati dello Stato intervengano con provvedimenti trancianti e impopolari.
5 giugno 2024