
I pascoli della Valsugana – a est di Trento, nelle Alpi Orientali italiane – non sono più quelli di una volta. Il loro progressivo degrado è stato certificato da uno studio scientifico pubblicato all’inizio di questo mese dalla rivista scientifica Applied Vegetation Science, disponibile nella Wiley Online Library e intitolato “Grassland Changes in the Eastern Alps Over Four Decades: Unveiling Patterns Along an Elevation Gradient” (“Cambiamenti nelle praterie nelle Alpi orientali nel corso di quattro decenni: svelare i modelli lungo un gradiente di elevazione”).
La ricerca, condotta da un team di scienziati di sette enti di ricerca, con capofila l’Università degli Studi di Siena, ha coinvolto i botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto per i rilievi sul campo, documentando nel corso di quarant’anni le profonde trasformazioni che hanno riguardato a diverse quote tanto i prati da fieno quanto i pascoli, indicando le cause dei cambiamenti.

Oltre a delineare lo stato attuale e il decorso di tali mutazioni, i ricercatori hanno fornito informazioni decisive per definire delle possibili strategie di recupero e conservazione di questi patrimoni vegetali. Grazie a questo studio sarà possibile comprendere i cambiamenti occorsi nel tempo e decidere gli interventi da attuare per preservare la biodiversità – specificamente qui e indicativamente altrove – di habitat che caratterizzano il paesaggio alpino.
A partire dal 2022, lo studio ha riguardato l’evoluzione della vegetazione di prati e pascoli, ripercorrendo l’importante opera che il botanico Filippo Prosser svolse per il Museo Civico di Rovereto nel biennio 1986-88. Il lavoro si è articolato su 115 rilievi vegetazionali, approfondite analisi statistiche e comparazione dei dati raccolti e ha condotto i ricercatori a esaminare i cambiamenti della vegetazione, dei muchi e dei licheni dal fondovalle alle sommità montane.
I risultati ottenuti hanno messo in luce un evidente degrado delle aree prative semi-naturali, sia per la riduzione delle attività pastorali che – a quota medio-bassa – per l’introduzione di pratiche agricole quali la viticoltura e la frutticoltura.
A quota più alta la tendenza all’abbandono dei prato-pascoli conseguente alla crisi della pastorizia ha favorito la crescita di arbusti e alberi che in alcuni casi ha portato ad una significativa estensione dei boschi. Anche ad altitudini maggiori, nonostante gli ecosistemi siano risultati più stabili, sono state riscontrate importanti cambiamenti nella composizione delle specie, con un decremento della flora autoctona, soppiantata da specie più comuni, prevalentemente nitrofile (che richiedono terreni ricchi di azoto), di scarso pregio estetico a bassa e media quota e una diminuzione dei prati magri (che richiedono concimazioni non eccessive) e di conseguenza una riduzione delle specie tipiche di questi habitat, spesso caratterizzate da vistose fioriture.
«Le cause di questi cambiamenti», ha spiegato Filippo Prosser della Fondazione Museo Civico di Rovereto, «sono molteplici e spesso interconnesse. L’abbandono delle pratiche tradizionali di gestione del territorio, come il pascolo e lo sfalcio, ha avuto un ruolo cruciale, soprattutto a media quota, favorendo la ricolonizzazione da parte di alberi e boschi».
«Parallelamente», ha proseguito Prosser, «nelle aree di fondovalle, l’intensificazione agricola ha trasformato molti prati in coltivazioni intensive come vigneti, meleti e piantagioni di piccoli frutti, o aree urbanizzate, favorendo così le specie nitrofile. Ancora più allarmante è il destino dei prati ancora falciati: oggi vengono concimati in misura molto maggiore rispetto al passato, con un impoverimento della loro flora. Anche i cambiamenti climatici hanno un ruolo, causando la risalita di molte specie verso quote più alte e favorendo la diffusione di specie non locali».
«Queste trasformazioni», ha aggiunto il coordinatore dello studio, Prof. Gianmaria Bonari dell’Università di Siena, «hanno implicazioni significative per la conservazione della biodiversità alpina. La scomparsa di prati e pascoli magri e la diffusione di specie invasive rappresentano una minaccia per la ricchezza biologica di questi ecosistemi tradizionali. È quindi essenziale sviluppare strategie di gestione che tengano conto delle peculiarità floristica-vegetazionale di ciascuna fascia altitudinale. Ad esempio, è possibile incentivare il ritorno a pratiche agricole meno intensive o adottare misure per controllare l’espansione delle specie invasive».
28 febbraio 2025