Latte, formaggi e influenza aviaria: la Cornell University rassicura consumatori e industria

Laboratori di ricerca presso la Cornell University
foto Cornell University©

Notizie rassicuranti giungono dalla Cornell University circa il consumo di latte e derivati del latte che potrebbero essere contaminati dal virus dell’influenza aviaria. La malattia infettiva, che continua a sferzare gli allevamenti di bovine da latte degli Stati Uniti (al gennaio scorso il virus era diffuso nel 71% degli allevamenti Usa) desta una certa preoccupazione tra i consumatori dopo i salti di specie registrati nei mesi scorsi (oltre a quello da uccelli selvatici a bovini, da bovini a gatti e ad esseri umani).

Lunedì 7 aprile scorso infatti, il bollettino del prestigioso ateneo statunitense ha pubblicato un articolo intitolato “Avian flu in raw milk found to be broadly sensitive to heat” (trad.: “L’influenza aviaria nel latte crudo si è rivelata ampiamente sensibile al calore”) in cui ricostruisce l’attività svolta dai suoi ricercatori relativamente alla contaminazione di questi prodotti alimentari.

“Nel marzo 2024”, spiega l’articolo, “quando furono identificati i primi casi di influenza aviaria ad alta patogenicità nelle mucche da latte in Texas, i ricercatori della Cornell University iniziarono immediatamente a valutare la durata della sopravvivenza del virus nel latte crudo delle mucche infette”.

Sin da subito i responsabili dei Dipartimenti interessati (di Virologia, di Scienze Alimentari), oltre a quelli del “Milk Quality Improvement Program”, presso il Cals (College of Agriculture and Life Sciences) vennero presi d’assalto da chiamate e messaggi di allevatori e trasformatori seriamente preoccupati per la sicurezza alimentare dei loro prodotti.

«L’industria», spiega Nicole Martin, professoressa associata di ricerca in scienze alimentari e direttrice del Milk Quality Improvement Program, «cercava informazioni scientifiche per garantire la sicurezza dei propri processi. Quindi, sotto la guida del laboratorio condotto da Diego Diel, professore associato di virologia presso il nostro Cvm (College of Veterinary Medicine), avviammo una serie di approfondimenti scientifici, spinti dal fatto che l’industria aveva bisogno di queste risposte».

Nel primo dei loro studi relativi al comportamento del virus nel latte, pubblicato anch’esso il 7 aprile su Nature Communications, il team condotto dai Proff. Martin e Diel ha scoperto che il virus dell’influenza aviaria H5N1, presente in elevate quantità nel latte di mucche infette, persisteva nel latte crudo fino a otto settimane a temperature di refrigerazione. Ma i ricercatori hanno anche testato la risposta del virus alla pastorizzazione e a diverse altre condizioni di “subpastorizzazione”, scoprendo che processi di pastorizzazione che imitavano quelli raccomandati dalla Fda (Food and Drug Administration) e diverse condizioni di “subpastorizzazione” sono in grado di rendere completamente inattivo il virus.

Vale a dire che chi si trovi a bere del latte pastorizzato – anche se per pura ipotesi proveniente da un allevamento contaminato –non corre assolutamente alcun rischio. E questo per hé la pastorizzazione è in grado di neutralizzare completamente il virus.

Nei loro test, i ricercatori hanno scoperto che il virus presente nei campioni di latte contaminato veniva inattivato ben prima di raggiungere la pastorizzazione (72ºC per 15”), vale a dire con una semplice termizzazione.

Ma non solo, perché i ricercatori della Cornell University hanno effettuato anche delle verifiche per fornire agli operatori del settore lattiero-caseario le informazioni necessarie per smaltire il latte infetto senza diffondere ulteriormente il virus.

“La ricerca”, spiega la Cornell University in una nota stampa, “offre anche ai produttori artigianali, che utilizzano latte crudo per realizzare determinati formaggi, delle opzioni per tutelare i loro clienti”. “In un altro studio” infatti, “la cui pre-stampa è stata pubblicata il 14 marzo scorso, il gruppo di lavoro coordinato dal Prof. Diel ha rivelato che il virus può persistere nei formaggi a latte crudo per 60 giorni, sfatando l’idea che il processo di stagionatura uccida il virus”.

Aviaria e formaggi: “il latte va quantomeno termizzato”

«Ma anche senza una pastorizzazione completa», ha precisato Diel, «quelle temperature di “subpastorizzazione” sono efficaci nell’inattivare il virus. Questa ricerca fornisce quindi all’industria casearia artigianale un’alternativa valida per trattare il latte prima di produrre il formaggio».

La ricerca prosegue, al servizio del settore

Il lavoro dei ricercatori non si ferma di certo qui: il team dell’università statunitense continuerà a studiare il virus nel latte man mano che emergeranno nuovi ceppi e nuove domande da parte dell’industria. “Gli stakeholder del settore”, precisano alla Cornell University, “dalle grandi aziende ai piccoli trasformatori, hanno beneficiato degli incontri mensili virtuali sulla sicurezza alimentare offerti dal Cornell Institute for Food Safety, dove Martin e Diel hanno presentato il lavoro del team e risposto direttamente alle domande”.

“Il supporto proseguir sotto forma di guida”, assicurano alla Cornell: “Si tratta proprio di una guida, non di una soluzione definitiva. L’industria vuole conoscere le migliori pratiche da adottare, e i nostri studi rappresentano in ogni momento i migliori passi nella giusta direzione”.

11 aprile 2025