Allerte alimentari: quante inesattezze da parte dei media!

Quella appena trascorsa è stata un’altra settimana caratterizzata da allerte alimentari Rasff (il sistema di allerta comunitario) in cui l’Italia – come altri Paesi – ha visto ritirare dal mercato prodotti più o meno pericolosi per la salute umana, tra cui alcuni derivati del latte. Ancora una volta allerte gravi e diffuse sono state accostate ad episodi marginali e di scarso valore sociale e sanitario, con una circolazione delle notizie spesso mal gestita dai mezzi di comunicazione di massa. Due i casi emblematici che la nostra Redazione ha rilevato nei giorni scorsi: da una parte un sequestro di 1.700 kg di prodotti lattiero-caseari mal conservati, dall’altra un’ingente partita di formaggi prodotti con latte di pecore probabilmente alimentate in un ambiente gravemente inquinato.

A dare grande risalto ad un fatto di poca importanza (il primo tra i due) è stato il quotidiano finanziario web “Investire Oggi”, che martedì scorso 17 ottobre ha riferito con toni altisonanti a proposito di un sequestro di formaggi operato dai Nas nel viterbese. Formaggi che presentavano semplicemente delle muffe in crosta e che avevano contaminato la cella di stagionatura con vapori ammoniacali, problema tipico di molti formaggi in stagionatura, quando il ricircolo dell’aria nell’ambiente di maturazione non è ottimale. Peccati “veniali” che hanno comportato un provvedimento a nostro avviso eccessivo e una eco davvero sporpositata rispetto alla presunta nocività dei prodotti.

Del tutto naturale la presenza di muffe sui formaggi artigianali che, stagionando, possono liberare sentori ammoniacali – le foto sono tratte dal blog ”Joy of Cheesemaking”©

A fare da contraltare a questa cronaca, il giorno seguente, è giunta la notizia, lanciata dal sito web dell’associazione “Sportello dei Diritti” e poi ripresa da testate giornalistiche come “Politicamente Corretto”, di due sequestri avvenuti stavolta in territori stranieri – quello croato e quello tedesco, che hanno fatto scattare il blocco e l’allerta pubblico a carico di “latte e derivati contaminati da un tasso di piombo” che superava di tre volte il limite stabilito dalla legge.

“Nel campione di latte crudo di pecora prelevato per le analisi il 19/09/2017”, così si legge nell’annuncio, sono stati ritrovati “0,060 mg/kg di piombo a fronte di un limite di legge di 0,02”. Al cospetto di una notizia certamente grave appare palese un errore interpretativo evidente in grado di indurre confusione nel lettore per la disomogeneità delle cifre messe a confronto, laddove a contare non sono gli “zero” finali bensì la posizione della virgola (in sostanza lo 0,060 mg/kg va letto come uno 0,06 mg/kg).

Il piombo, sostanza altamente nociva che si accumula nell’ambiente (in questo caso nell’erba brucata chissà dove) è in grado di contaminare molti alimenti in commercio (verdure o frutta, oltre alle carni e ai latti) essendo presente in aree talvolta destinate a produzioni agroalimentari contaminate da emissioni industriali o da impianti di smaltimento rifiuti (inceneritori, etc.) o più semplicemente in zone ad alta densità di traffico automobilistico (guai a far pascolare animali in prossimità di strade o sotto i viadotti, come talvolta vediamo che accade, ndr), ma anche per l’abbandono di batterie di auto, pile e accumulatori in piombo e per mille altre cause.

Con una notizia del genere, proposta ancora una volta senza che venga rivelato il nome del produttore né l’origine del prodotto, a perdere di credibilità rischia di essere tutto il comparto, per una gestione ambientale che di norma purtroppo appare lasciata al caso e che spesso ha visto impunite palesi responsabilità di amministratori pubblici avvezzi a concedere autorizzazioni a impianti inquinanti in presenza di attività pastorali preesistenti.

Gli effetti tossici del piombo, possono causare conseguenze negative permanenti a livello cerebrale e minare le capacità cognitive in particolare di neonati e bambini piccoli che sono particolarmente vulnerabili. In questo caso la segnalazione diventa pubblica in quanto il prodotto è esportato e quindi più facilmente sottoposto ad analisi, con la consequenza di innescare, per l’appunto, il sistema di allerta rapida Rasff.

Su questo problema «in Italia», sottolinea Giovanni D’Agata, presidente dello Sportello dei Diritti, «non c’è stata nessuna comunicazione; nulla è stato detto ai consumatori che non hanno alcun modo per scoprire quale sia l’area di provenienza del latte fresco ovino sotto accusa».

«In tale ottica«, ha concluso D’Agata, «chiediamo alle autorità sanitarie, a partire dal Ministero della Salute di fare chiarezza e di evitare un’altra volta di fare una gaffe internazionale, come quella delle uova al fipronil, perché con la salute dei cittadini non si può permettere alcuna defaillance».

23 ottobre 2017