
8 gennaio 2009 – Fornaro, Quaranta e Sperti. Cognomi che suonano male, molto male alle orecchie di Emilio Riva proprietario delle acciaierie Ilva, dal giorno in cui le tre famiglie taratine, che una volta vivevano di pastorizia, hanno deciso – tra Natale e Capodanno – di sporgere denuncia alla Procura della Repubblica di Taranto per l’abbattimento delle loro mille pecore, “malate” di diossina.
Neanche la soddisfazione di denunciare il grande inquinatore in persona, ovvero la sua industria, dalle cui ciminiere si abbattono sulla città pugliese e nei suoi paraggi 7 nanogrammi al metro cubo di diossina (il limite di guardia europeo è pari a 0,4 nanogrammi, sei volte più basso), perché la logica procedurale prevede la denuncia contro ignoti, a seguito della quale, a metà gennaio, sono previste le perizie che proprio la procura tarantina disporrà per dare un volto ufficiale al colpevole.
Chiamiamolo paradosso, visto che su questi terreni da quaranta anni piovono il 90% delle emissioni industriali italiane del pericoloso inquinante, e che un tasso di inquinamento di questa portata lo si registra sommando le emissioni di quattro Stati come Gran Bretagna, Spagna, Svizzera e Francia. Senza pensare poi che un impianto in tutto simile, quello delle acciaierie Lucchini di Trieste, è riuscito a portare in due anni il proprio impatto da una situazione prossima a quella tarantina agli 0,1 nanogrammi richiesti dalla confinante Austria. Dopo che un decreto del dirigente regionale all’Ambiente aveva imposto al siderurgico, pena la chiusura, il rispetto dei limiti europei.
Ora contro l’Ilva ci prova il governatore della Regione Puglia Nichi Vendola, dopo che la sua giunta ha approvato in novembre una legge anti-diossina che pone dei limiti più severi rispetto alla normativa nazionale e in sintonia con le misure europee. Una situazione di fronte a cui il patron dell’Ilva si è dichiarato pronto a chiudere se la questione si facesse troppo gravosa, ma davanti alla quale non si esclude che il Governo potrebbe opporsi alla nuova legge regionale impugnando l’obiezione di sospetta incostituzionalità (in assenza di una legge quadro in materia di diossine non è previsto alcun intervento legislativo regionale che modifichi la vigente normativa nazionale, largamente permissiva nei confronti dell’industria).
Ancora una volta di fronte al rischio occupazione (lo stabilimento tarantino dà lavoro a 13mila dipendenti e genera un indotto per altri 8mila occupati) gli industriali vorrebbero si tacesse, ma la coscienza ambientale tarantina è cresciuta a tal punto da spingere in piazza nel corso dell’ultima protesta contro l’Ilva ben 25mila persone (l’anno scorso erano state appena duemila), che hanno detto “no” alla vecchia logica del lavoro anche a costo della propria vita.
La storia si chiude così, laddove era iniziata: mille pecore nel cui grasso e nel cui latte l’Arpa (Agenzia regionale per la Protezione Ambientale) aveva rintracciato diossina oltre i limiti di legge, sono state abbattute secondo quanto prevede la normativa vigente. A nulla sono valsi i ripetuti appelli dell’associazione locale Codici, che aveva proposto di utilizzarle in fattorie didattiche o in attività di pet therapy.
Ai proprietari – non si sa quando – andranno 160mila Euro di risarcimento. Una volta pagati trasporto al mattatoio, abbattimento ed eliminazione delle carcasse i soldi per ricomperarne non ce ne saranno più. Ma dopotutto non è un problema: la diossina sui pascoli delle loro aziende rimarrà ancora per qualche generazione.