Ci risiamo: ancora una volta uno studio scientifico è stato condotto – stavolta dalla Oregon State University, Usa – per stabilire la superiorità del latte di bovine alimentate con semi di lino. O, per meglio dire, con un’integrazione di semi di lino estrusi. Ancora una volta la ricerca è stata pubblicata, per la precisione dal Journal of Dairy Science, ed ancora una volta i giornali plaudono agli autori dello studio, senza sottolineare che ormai di queste ricerche ne esistono in abbondanza, condotte in ogni continente, con risultati che oramai non hanno quasi più nessuna novità da raccontare.
Stavolta i ricercatori hanno cercato però di concentrare la loro attenzione sul miglior dosaggio del lino come integratore della dieta nelle bovine da latte, per stabilire con esattezza il giusto equilibrio del suo apporto. Ad essere coinvolte nel progetto sono state dieci vacche gravide sottoposte ad una stessa dieta in cui nel tempo è stata introdotta una percentuale variabile di lino, per l’appunto, sino ad un massimo del 7% della razione totale. Analizzato il latte, analizzati i suoi derivati, quello che si cercava di capire era “quanto” seme di quella pianta portasse ad ottenere i migliori risultati sia in termini di qualità analitica del prodotto (grassi polinsaturi) che in termini di trasformazione (burro, yogurt, formaggio).
«Il nostro obiettivo era quello di individuare il giusto dosaggio», ha spiegato il responsabile della ricerca Gerd Bobe, «che non è mai facile da trovare. Basti pensare che qualsiasi alimento, anche benefico, assunto in eccesso, comporta problemi».
In sostanza, lo studio ha permesso di capire che un dosaggio di circa 2,7kg di lino estruso nella razione giornaliera delle bovine comporta un miglioramento del profilo dei grassi del latte senza compromettere la “texture” del prodotto. In questo modo gli acidi grassi saturi scendono al 18%, e gli acidi grassi polinsaturi aumentano sino a raggiungere l’82%, mentre gli Omega3 hanno fatto registrare un incremento del 70% rispetto alla precedente dieta senza lino.
Tra le varie considerazioni di natura più pratica, i ricercatori hanno evidenziato due altri elementi, uno buono per gli allevatori – vale a dire che pur variando la dieta, la resa lattea rimane la stessa – e l’altro apprezzabile per i consumatori, perché il burro con più grassi polinsaturi risulta più morbido anche se refrigerato.
L’argomento prezzo invece rappresenta un elemento apparentemente negativo, aumentando inevitabilmente per via dell’elevato costo del lino. Ma – come tiene a sottolineare Gerd Bobe – i prodotti ottenuti in questo modo si pongono su un piano più elevato rispetto ai tradizionali, ricadendo in un ambito, quello degli “arricchiti con Omega3” che ha da tempo trovato i suoi estimatori.
Infine, una battuta Bobe la fa, e si riferisce all’apprezzamento con cui le vacche hanno accolto i semi di lino (ne sono ghiottissime): di sicuro «nessun allevatore dovrà faticare per convincere i suoi animali a mangiarne».
La nostra di considerazione finale è che, se gli animali – da latte o da carne che siano – sono condotti al pascolo (nella stagione buona, e alimentati a foraggio locale in quella avversa), le integrazioni di lino saranno superflue, in quanto è nel pascolo polifita stesso che si trovano tutti i nutrienti necessari per l’ottenimento del miglior latte e della migliore carne.
2 febbraio 2013